News - MV F4 Story - L'ing Rosa e le spine del progetto
La sfida ingegneristica non è come la pensiamo noi: fare il motore da 250 cavalli di una MotoGP con un budget faraonico non è più difficile che progettare un modesto scooterino tenendo il prezzo finale sotto i 2500 euro. Sono solo limiti diversi. Eppure la moto più bella del mondo è nata in tempi economicamente difficili per la Cagiva – ancora non si chiamava MV Agusta – e con un budget ”tirato”. Non lo sapevate? Il presidente Claudio Castiglioni era un genio anche nel curare e valorizzare l’immagine dell'azienda, oltre che nel sognare moto favolose
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L'arrivo a Schiranna
L’ingegner Riccardo Rosa venne incaricato del progetto MV Agusta F4, e ricorda bene quei tempi gloriosi e gli sforzi per concretizzare il miracolo. Aveva guidato il reparto corse Cagiva 500 dal 1992 al 1994, e quando il progetto GP era stato fermato, Castiglioni lo aveva convinto ad accettare la direzione tecnica del Gruppo: Cagiva, Husqvarna e anche Ducati, lì dove era iniziato lo sviluppo del quattro cilindri commissionato a Ferrari Engineering. Ma a Bologna quel motore andava stretto come un vestito che non è il tuo. Era stato affidato a Luciano Negroni, ex responsabile del Reparto Sviluppo Prototipi Moto Morini, ma il tecnico romagnolo era costretto a barcamenarsi fra mille ostacoli e perdite di tempo.
«In quella situazione Negroni faceva il possibile – spiega l’ingegner Rosa –, però quando Claudio Castiglioni domandò "Come mai le cose non vanno avanti?" io mi imposi: "Claudio, metti tutto dentro due container e portalo a Schiranna, perché non riuscirai mai a gestire quel progetto a Borgo Panigale"».
Detto fatto, nel giro di sei mesi arrivò su tutto, in particolare i due prototipi marcianti: quello con il motore 750 cm³ tradizionale e l’altro maggiorato a 860 cm³ e con le teste girate, aspirazione davanti e scarichi all’indietro. Rosa si occupò soprattutto del motore. Alla ciclistica avrebbe pensato Massimo Tamburini che era già allertato: sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa di mai visto prima. Formalmente anche il “suo” CRC, il Centro Ricerche Cagiva, dipendeva da Rosa in quanto direttore tecnico, ma il designer riminese godeva di molta libertà.
«Un paio di volte con Castiglioni lo andammo a trovare in elicottero. Blitz gerarchici per quanto riguarda Claudio, molto più diplomatici e organizzativi da parte mia: Tamburini non andava comandato ma aiutato, ascoltato, ed è quello che facevo».
Una delle prime scelte prese dall’Ingegnere fu quella di abbandonare il motore con le teste girate. Teoricamente la versione più recente ma non la più efficace.
«Per ottenere dei cavalli bisogna fare un air box il più grande possibile e in quella configurazione mancava lo spazio, perché il motore era piantato contro il cannotto di sterzo. Lo montammo su un telaio Cagiva 500 GP ma senza convinzione: facemmo la moto con cui Pierfrancesco Chili girò al Mugello, andava malissimo e ce lo aspettavamo. Siccome non c’erano risorse per fare due motori, e quasi non c’erano per uno solo… lo abbandonammo».
C’era da lavorare parecchio anche sull’altro, Il 750 cm³. Una cilindrata che avrebbe permesso anche l’eventuale impegno in Superbike.
«I motori appena arrivati erano stati subito messi al banco prova dai ragazzi del Reparto Corse, con un po’ di scetticismo perché la rivalità con Borgo Panigale era fortissima. Il risultato non era stato entusiasmante: il 750 non andava oltre 89-90 cavalli».
C’era da rimboccarsi le maniche, in particolare sul sistema di iniezione-accensione.
«Era una delle prime gestioni Marelli per i quattro cilindri motociclistici ed era stata fatta quasi artigianalmente, avevano dovuto convincerli a fare una cosa che non volevano assolutamente fare. Mi spolmonai al telefono per ottenere che la rifacessero».
Ma ci voleva molto di più. Il progetto non era nato bene e per giunta cominciava ad essere datato. L’ingegner Rosa prese la situazione in pugno e andò da Castiglioni proponendogli di rifare il motore da capo. Insistevano anche gli uomini della sala prove, cioè l’ingegner Andrea Goggi, Ezio Mascheroni e Angelo Merlini: «Claudio, la situazione non è bellissima. Cosa facciamo?».
Il cambiamento
Un po’ a malincuore Castiglioni dette l’OK, a condizione che rimanessero le teste con le valvole radiali. La soluzione prelevata dalla F1 automobilistica qui dava un vantaggio irrisorio ma alzava notevolmente i costi. Però…
«No no no, assolutamente no – aveva risposto il capo, nonostante le pressioni di Rosa – perché le ha fatte così la Ferrari Engineering, Piero Ferrari si offenderebbe, non possiamo toccarle».
Dunque la testa con le valvole radiali venne conservata, parola di Presidente, ma venne rifatto tutto il resto, ciò che era più importante. Rosa decise le impostazioni, diametro dei condotti, alzate delle camme, i diagrammi, il rapporto di compressione, quelle che sono le questioni relative allo squish della testa, la lunghezza della biella, rifece il carter, le pompe dell'olio più gagliarde per garantire un sistema di lubrificazione semi-secco, e introdusse il cambio estraibile che prima non c'era. Fece i calcoli fluidodinamici e tutte il resto, poi dette incarico di disegnare il basamento ad Alberto Andreini, mentre teste e cilindri vennero affidati a Lino Quartieri.
Rimase quella che per il suo papà era una piccola pecca ma per Massimo Tamburini era un pregio.
«Quel benedetto giuntino… C’è un riduttore sull'albero motore da cui parte la catena che comanda gli assi a camme. Quello è fonte di rumore e borbottio al minimo, perché la catena genera incertezza di fase. Poi nel momento in cui il motore tira tutti i giochi vengono accostati da una parte e non lo si sente più. Era un atout del progetto: nacque così per avere la catena centrale in modo da avere entrambi i lati "belli", così che il buon Tamburini potesse fare una naked nella quale il motore era simmetrico, contrariamente a tutti gli altri quattro cilindri. Da un punto di vista artistico è inattaccabile».
Il motore nacque in 18 mesi quando solitamente ci vogliono quattro o cinque anni, ma soprattutto nacque in regime di economia.
«Sì, qualche quattrino in più ci avrebbe dato più serenità; però abbiamo usato i mezzi che avevamo. Molte cose le abbiamo fatte fare da amici che hanno accettato pagamenti dilazionati; altre, come i basamenti e i coperchi, le abbiamo fatte realizzare all'officina interna per cercare di risparmiare, facendo di necessità virtù perché avevamo un budget scandalosamente basso. Fino a lì la F4 è costata poco. Poi ci sono stati dei ritardi e tirare così per le lunghe un progetto costa tanto, ma io non c’ero già più: a fine ‘96 avevo accettato l’offerta di Andrea Merloni ed ero andato in Benelli a progettare il tre cilindri».
L’ingegner Rosa aveva appena fatto in tempo a vedere il ”suo” motore realizzato e messo al banco prova: aveva 125-126 cavalli proprio come aveva calcolato in fase di progettazione e con quelli andò in produzione, ma solo nel 1999.
Uscì con un dispositivo che avrebbe fatto storia: le trombette di aspirazione telescopiche, che si allungano ai bassi regimi e si accorciano agli alti. Era la prima volta che questa soluzione veniva applicata su una moto.
«Tamburini l’aveva vista da qualche parte, non era un motorista ma aveva capito che dava un vantaggio. Poi Mascheroni e Goggi l’hanno fatta funzionare in sala prove fino a portarla in produzione. Aggiungeva valore in termini motoristici: il quattro cilindri 750 ottenne una maggiore coppia in basso e fu una buona cosa: girava già a 13.000, non era un motore da passeggio, e in basso era un po’ vuoto ».
La presentazione
La F4 venne presentata il 15 settembre 1997, ma solo il 23 aprile 1999 venne lanciata la prima serie messa in vendita: era la Serie Oro, costava la bellezza di 68 milioni di lire e aveva componentistica raffinatissima e i carter fusi in terra come le moto da corsa. Un elemento di pregio ma anche un escamotage per iniziare prima la produzione. Quelli pressofusi per la grande serie richiedevano molto più tempo e vennero fatti solo successivamente.
Arrivare in fondo non era stato una passeggiata. Anche i ragazzi del Reparto Corse avevano fatto di tutto, oltre a portare avanti lo sviluppo al banco prova.
«Quando abbiamo fatto la Serie Oro l’azienda era in un momento di crisi paurosa – è il racconto di Merlini, responsabile del reparto sviluppo propulsori –. Quel motore è stato fatto con il sangue di tutti: Mascheroni, Goggi, mio, di Silvano, di tutti i tecnici che c’erano allora. Si faceva tutto anche con quello che non c’era pur di andare avanti, e il fatto che sia piaciuta così tanto quando l’abbiamo presentata, che tutti ne fossero entusiasti, fu una grande soddisfazione. Eravamo anche nel target di potenza richiesto, all’epoca per una moto da strada 120 CV era un bel livello. Il problema è che saremmo potuti arrivare sul mercato anche un anno prima e se ci fossimo riusciti sarebbe stata una potenza esorbitante».
«Sono stati anni di concentrazione, passione e sacrifici – concorda l’ingegner Rosa –. Perché non eri mica alla Porsche dove ti assegnano un budget e ne vieni fuori senza problemi. Lì è stato un combattere con “questo ce l’ho, questo non ce l’ho, quello non lo posso prendere, questo non lo posso fare”. Però alla fine non è venuta una brutta cosa… Il povero Claudio era passione allo stato liquido».
L’ingegner Riccardo Rosa venne incaricato del progetto MV Agusta F4, e ricorda bene quei tempi gloriosi e gli sforzi per concretizzare il miracolo. Aveva guidato il reparto corse Cagiva 500 dal 1992 al 1994, e quando il progetto GP era stato fermato, Castiglioni lo aveva convinto ad accettare la direzione tecnica del Gruppo: Cagiva, Husqvarna e anche Ducati, lì dove era iniziato lo sviluppo del quattro cilindri commissionato a Ferrari Engineering. Ma a Bologna quel motore andava stretto come un vestito che non è il tuo. Era stato affidato a Luciano Negroni, ex responsabile del Reparto Sviluppo Prototipi Moto Morini, ma il tecnico romagnolo era costretto a barcamenarsi fra mille ostacoli e perdite di tempo.
«In quella situazione Negroni faceva il possibile – spiega l’ingegner Rosa –, però quando Claudio Castiglioni domandò "Come mai le cose non vanno avanti?" io mi imposi: "Claudio, metti tutto dentro due container e portalo a Schiranna, perché non riuscirai mai a gestire quel progetto a Borgo Panigale"».
Detto fatto, nel giro di sei mesi arrivò su tutto, in particolare i due prototipi marcianti: quello con il motore 750 cm³ tradizionale e l’altro maggiorato a 860 cm³ e con le teste girate, aspirazione davanti e scarichi all’indietro. Rosa si occupò soprattutto del motore. Alla ciclistica avrebbe pensato Massimo Tamburini che era già allertato: sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa di mai visto prima. Formalmente anche il “suo” CRC, il Centro Ricerche Cagiva, dipendeva da Rosa in quanto direttore tecnico, ma il designer riminese godeva di molta libertà.
«Un paio di volte con Castiglioni lo andammo a trovare in elicottero. Blitz gerarchici per quanto riguarda Claudio, molto più diplomatici e organizzativi da parte mia: Tamburini non andava comandato ma aiutato, ascoltato, ed è quello che facevo».
Una delle prime scelte prese dall’Ingegnere fu quella di abbandonare il motore con le teste girate. Teoricamente la versione più recente ma non la più efficace.
«Per ottenere dei cavalli bisogna fare un air box il più grande possibile e in quella configurazione mancava lo spazio, perché il motore era piantato contro il cannotto di sterzo. Lo montammo su un telaio Cagiva 500 GP ma senza convinzione: facemmo la moto con cui Pierfrancesco Chili girò al Mugello, andava malissimo e ce lo aspettavamo. Siccome non c’erano risorse per fare due motori, e quasi non c’erano per uno solo… lo abbandonammo».
C’era da lavorare parecchio anche sull’altro, Il 750 cm³. Una cilindrata che avrebbe permesso anche l’eventuale impegno in Superbike.
«I motori appena arrivati erano stati subito messi al banco prova dai ragazzi del Reparto Corse, con un po’ di scetticismo perché la rivalità con Borgo Panigale era fortissima. Il risultato non era stato entusiasmante: il 750 non andava oltre 89-90 cavalli».
C’era da rimboccarsi le maniche, in particolare sul sistema di iniezione-accensione.
«Era una delle prime gestioni Marelli per i quattro cilindri motociclistici ed era stata fatta quasi artigianalmente, avevano dovuto convincerli a fare una cosa che non volevano assolutamente fare. Mi spolmonai al telefono per ottenere che la rifacessero».
Ma ci voleva molto di più. Il progetto non era nato bene e per giunta cominciava ad essere datato. L’ingegner Rosa prese la situazione in pugno e andò da Castiglioni proponendogli di rifare il motore da capo. Insistevano anche gli uomini della sala prove, cioè l’ingegner Andrea Goggi, Ezio Mascheroni e Angelo Merlini: «Claudio, la situazione non è bellissima. Cosa facciamo?».
Il cambiamento
Un po’ a malincuore Castiglioni dette l’OK, a condizione che rimanessero le teste con le valvole radiali. La soluzione prelevata dalla F1 automobilistica qui dava un vantaggio irrisorio ma alzava notevolmente i costi. Però…
«No no no, assolutamente no – aveva risposto il capo, nonostante le pressioni di Rosa – perché le ha fatte così la Ferrari Engineering, Piero Ferrari si offenderebbe, non possiamo toccarle».
Dunque la testa con le valvole radiali venne conservata, parola di Presidente, ma venne rifatto tutto il resto, ciò che era più importante. Rosa decise le impostazioni, diametro dei condotti, alzate delle camme, i diagrammi, il rapporto di compressione, quelle che sono le questioni relative allo squish della testa, la lunghezza della biella, rifece il carter, le pompe dell'olio più gagliarde per garantire un sistema di lubrificazione semi-secco, e introdusse il cambio estraibile che prima non c'era. Fece i calcoli fluidodinamici e tutte il resto, poi dette incarico di disegnare il basamento ad Alberto Andreini, mentre teste e cilindri vennero affidati a Lino Quartieri.
Rimase quella che per il suo papà era una piccola pecca ma per Massimo Tamburini era un pregio.
«Quel benedetto giuntino… C’è un riduttore sull'albero motore da cui parte la catena che comanda gli assi a camme. Quello è fonte di rumore e borbottio al minimo, perché la catena genera incertezza di fase. Poi nel momento in cui il motore tira tutti i giochi vengono accostati da una parte e non lo si sente più. Era un atout del progetto: nacque così per avere la catena centrale in modo da avere entrambi i lati "belli", così che il buon Tamburini potesse fare una naked nella quale il motore era simmetrico, contrariamente a tutti gli altri quattro cilindri. Da un punto di vista artistico è inattaccabile».
Il motore nacque in 18 mesi quando solitamente ci vogliono quattro o cinque anni, ma soprattutto nacque in regime di economia.
«Sì, qualche quattrino in più ci avrebbe dato più serenità; però abbiamo usato i mezzi che avevamo. Molte cose le abbiamo fatte fare da amici che hanno accettato pagamenti dilazionati; altre, come i basamenti e i coperchi, le abbiamo fatte realizzare all'officina interna per cercare di risparmiare, facendo di necessità virtù perché avevamo un budget scandalosamente basso. Fino a lì la F4 è costata poco. Poi ci sono stati dei ritardi e tirare così per le lunghe un progetto costa tanto, ma io non c’ero già più: a fine ‘96 avevo accettato l’offerta di Andrea Merloni ed ero andato in Benelli a progettare il tre cilindri».
L’ingegner Rosa aveva appena fatto in tempo a vedere il ”suo” motore realizzato e messo al banco prova: aveva 125-126 cavalli proprio come aveva calcolato in fase di progettazione e con quelli andò in produzione, ma solo nel 1999.
Uscì con un dispositivo che avrebbe fatto storia: le trombette di aspirazione telescopiche, che si allungano ai bassi regimi e si accorciano agli alti. Era la prima volta che questa soluzione veniva applicata su una moto.
«Tamburini l’aveva vista da qualche parte, non era un motorista ma aveva capito che dava un vantaggio. Poi Mascheroni e Goggi l’hanno fatta funzionare in sala prove fino a portarla in produzione. Aggiungeva valore in termini motoristici: il quattro cilindri 750 ottenne una maggiore coppia in basso e fu una buona cosa: girava già a 13.000, non era un motore da passeggio, e in basso era un po’ vuoto ».
La presentazione
La F4 venne presentata il 15 settembre 1997, ma solo il 23 aprile 1999 venne lanciata la prima serie messa in vendita: era la Serie Oro, costava la bellezza di 68 milioni di lire e aveva componentistica raffinatissima e i carter fusi in terra come le moto da corsa. Un elemento di pregio ma anche un escamotage per iniziare prima la produzione. Quelli pressofusi per la grande serie richiedevano molto più tempo e vennero fatti solo successivamente.
Arrivare in fondo non era stato una passeggiata. Anche i ragazzi del Reparto Corse avevano fatto di tutto, oltre a portare avanti lo sviluppo al banco prova.
«Quando abbiamo fatto la Serie Oro l’azienda era in un momento di crisi paurosa – è il racconto di Merlini, responsabile del reparto sviluppo propulsori –. Quel motore è stato fatto con il sangue di tutti: Mascheroni, Goggi, mio, di Silvano, di tutti i tecnici che c’erano allora. Si faceva tutto anche con quello che non c’era pur di andare avanti, e il fatto che sia piaciuta così tanto quando l’abbiamo presentata, che tutti ne fossero entusiasti, fu una grande soddisfazione. Eravamo anche nel target di potenza richiesto, all’epoca per una moto da strada 120 CV era un bel livello. Il problema è che saremmo potuti arrivare sul mercato anche un anno prima e se ci fossimo riusciti sarebbe stata una potenza esorbitante».
«Sono stati anni di concentrazione, passione e sacrifici – concorda l’ingegner Rosa –. Perché non eri mica alla Porsche dove ti assegnano un budget e ne vieni fuori senza problemi. Lì è stato un combattere con “questo ce l’ho, questo non ce l’ho, quello non lo posso prendere, questo non lo posso fare”. Però alla fine non è venuta una brutta cosa… Il povero Claudio era passione allo stato liquido».
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