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MotoGP, il ritiro di Suzuki non deve stupire: la storia di Hamamatsu lo spiega

Il marchio giapponese ha vissuto diversi cicli nel motomondiale: l'era dei team privati, quella di Kevin Schwantz, un progetto MotoGP infelice e completamente rivisto. Dall'ultimo rientro però i risultati sono arrivati, e anzi non si sarebbe potuto ottenere di più di quel che si è raggiunto. In attesa di leggere il comunicato ufficiale ripercorriamo quali sono stati i momenti salienti della storia di Suzuki nel Motomondiale
Il ritiro di Suzuki è piombato sul paddock della MotoGP come un fulmine a ciel sereno, ma non è la prima volta che Hamamatsu decide di lasciare il motomondiale. L'approccio del costruttore giapponese al mondo professionistico della velocità è sempre stato particolare, e vale la pena ripercorrerlo, per provare a capire meglio un modo di fare che per noi europei può apparire in prima battuta incomprensibile.

Le origini
Suzuki si è impegnata nel mondiale fin dal 1960, ma l'approdo in classe regina arriva solo nel 1974. Le due annate iniziali sono nel complesso positive, con la prima vittoria di Barry Sheene al gp d'Olanda del 1975. Nonostante la RG500 sia una moto promettente, Suzuki decide di disimpegnarsi parzialmente negli anni successivi, e di affidare le proprie quattro cilindri a squadre private, sebbene di prim'ordine. Il team Suzuki Heron, britannico, è il primo a instaurare un rapporto di collaborazione con il produttore giapponese, e Sheene vince due mondiali nel 1976 e '77 negli indimenticabili colori rosso, nero e oro. Non ci riesce però l'anno successivo e Suzuki decide di affidare altre due moto al mitico team Gallina, che scrive la favola iridata di Marco Lucchinelli e Franco Uncini nel 1981 e '82.

L'era di KS34
Gli anni successivi scontano risultati in calando, un progetto tecnico che forse raggiunge il suo capolinea e così Suzuki si ritira, salvo poi tornare già nel 1987 con una nuova moto rivoluzionaria: la RGV Gamma, sempre un quattro cilindri ma a V, con Kevin Schwantz come pilota. Il talento e il coraggio di Kevin non infiammano solo una generazione di appassionati, ma arrivano quasi a oscurare la fama del marchio stesso. Suzuki d'altronde non schiererà mai più di due moto – in questo periodo rinnegando completamente la filosofia dell'affido del materiale a team privati di primo livello-. Un titolo arriva nel 1993 con Schwantz, un secondo nel 2000 con Kenny Roberts jr., poi si chiude l'era del due tempi.

MotoGP in due fasi
Il primo periodo di Suzuki nel nuovo ambiente tecnico-regolamentare non è semplicissimo: la GSV-R manca di cavalli e trazione, il progetto presenta idee innovative (l'acceleratore elettronico, per esempio), ma più del podio non si riesce a ottenere. Solo con l'introduzione della cilindrata 800cc la Suzuki inizia a rendere, anche se l'unico successo della GSV-R arriva in un gp bagnato a Le Mans nel 2007 con Chris Vermuelen. Complice la crisi economica, nel 2011 Suzuki annuncia il ritiro, ma si tratta solo di una pausa.

L'ultima avventura
Già nel 2013 infatti Hamamatsu annuncia il proprio rientro a partire dal 2015 con un progetto totalmente nuovo: si passa dal V4 al 4 in linea, la costituzione del team viene affidata a Davide Brivio e risultati sono buoni fin dal principio. Già nel 2016 arriva la prima vittoria con Maverick Vinales, il resto è storia recente: il titolo 2020 è la ciliegina sulla torta di un progetto indubbiamente molto valido, e che pure in questa stagione si sta facendo apprezzare.
Tuttavia, nel vedere come nel 2021 la figura di Brivio non sia stata sostituita – solo quest'anno è entrato Livio Suppo- e come sul rinnovo dei piloti non ci sia stata fretta di procedere nelle trattative, viene da pensare che proprio il successo iridato di due anni fa sia stato considerato un punto d'arrivo, più che un punto di partenza

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