Moto da incubo, 10 modelli che vi terrorizzeranno
Nella notte di Ognissanti per spaventare gli spiriti maligni si indossano costumi mostruosi, noi invece vi proponiamo 10 moto da incubo che per tanti motivi... è meglio non cavalcare!
Per la festa di Halloween è tradizione vestirsi con zucche intagliate, costumi terribili e maschere spaventose: servono per scacciare gli spiriti maligni nella notte di Ognissanti. Allora è proprio il giorno giusto per raccontarvi che è successo anche con le moto. Ci sono alcuni modelli che hanno spaventato il pubblico. Forse erano all’avanguardia, forse hanno puntato troppo in alto, oppure erano troppo impegnativi, o per diversi altri motivi. In ogni caso hanno lasciato un segno nella fantasia ma certo non sul piano delle vendite. In diversi casi sono i costruttori a ricordarli con spavento… Ecco gli esempi più "mostruosi".
Boss Hoss, l'americana fuori di testa
Non un modello solo ma un’intera gamma di moto da incubo, o da sogno, a seconda di quello che si va cercando. Perché il marchio fondato nel 1990 da Monte Warne è quanto di più esagerato possiate pensare. L’unico a produrre motociclette con motore Chevrolet V8 automobilistico, bestioni dalle misure e dalle potenze fuori del comune: le cilindrate vanno da 6200 a 8128 cm³, si arriva tranquillamente a 600 CV con coppie superiori a 78 kgm, interassi di molto superiore ai 2 metri e gomme posteriori larghe più di 25 cm. A raffreddare i giganteschi propulsori a otto cilindri provvedono ventole larghe quanto un termosifone. Tutto è esagerato nelle Boss Hoss, dalla cilindrata alle dimensioni, dalle potenze al peso, fino alla coppia che andrebbe bene per motori da camion. Impossibile passare inosservati, e questo è il bello. Certamente non sono moto da prendere sottogamba in nessuna delle versioni, si tratti delle Cruiser come delle Bagger, come anche delle Supersport. Pure quest’ultime, nonostante il nome, sono gigantesche cruiser dotate di manubrio a corna di bue e forcella inclinatissima, con un interasse leggermente più corto ma comunque chilometrico: 1956 mm. Se non vi bastasse, da qualche anno sono entrati in produzione anche i Trike, le moto a tre ruote, progettati con la stessa filosofia. Roba spettacolare ma certamente non alla portata di chiunque….
Kawasaki 750 Mach IV, l'impennatrice folle
Per contrastare il successo della Honda CB 750 la Kawasaki decise di sviluppare un modello dalle caratteristiche adrenaliniche, derivato dalla 500 H1: una 750 3 cilindri due tempi con prestazioni al vertice. Andava forte, anche troppo per le ciclistiche di quei tempi, e fu proprio questo il suo difetto: aveva un’accelerazione bruciante e una notevole velocità di punta ma era poco stabile, l’avantreno si alleggeriva facilmente e ci si trovava su una ruota sola anche con marce abbastanza lunghe.
Una belva adrenalinica che venne prodotta in tre differenti versioni dal 1971 al 1975 (750 H, 750 H2A, 750 H2B, 750 H2C). Tecnicamente non c’erano grossi problemi, se non qualche piccola noia al cambio e la scarsa qualità delle marmitte che tendevano a corrodersi, però aveva un consumo elevato. La crisi petrolifera, le normative antinquinamento statunitensi diventate più severe e il successo del modello 900 Z determinarono l’abbandono del progetto.
Ducati GTL, il frantoio di Borgo Panigale
Gli appassionati della Ducati ricordano ancora con orrore lo sfortunato progetto del 1975, affidato all’ingegner Tumidei: Il motore bicilindrico parallelo di 350 e 500 cm³ avrebbe dovuto sostituire la gamma delle monocilindriche monoalbero ormai troppo datate, ma fu un buco nell’acqua. Il motore era decisamente bruttino per via della vistosa protuberanza in cui era alloggiato il motorino d’avviamento, nella parte anteriore del carter, ma soprattutto ebbe problemi meccanici di ogni tipo. È il motivo per cui in Ducati lo chiamavano “demonio”, o anche “frantoio”, perché distruggeva le parti meccaniche al suo interno. Si verificarono la rottura di diverse parti, vibrazioni e grossi problemi di circolazione dell’olio, in particolare la tenuta fra testa e cilindro. Inoltre i carter motore tendevano a muoversi con i cambi di temperatura, spostando gli assi degli alberi e creando problemi di porosità nelle sedi dei contralberi, il pignone catena si spezzava e si rompevano i bulloni dei cappellotti di biella; dulcis in fundo, dopo un po’ di tempo si modificava la fasatura dell’accensione, probabilmente per la precoce usura delle spazzole.
Ce ne sarebbe stato più che sufficienza, invece la GTL era anche brutta. Era stata disegnata nientemeno che da Giorgetto Giugiaro ma non era il più riuscito dei suoi lavori, poco originale ed ancor meno elegante. Era decisamente più bella la SD disegnata da Leopoldo Tartarini, versione sportiva con la distribuzione desmodromica e 5 CV in più, ma era afflitta dagli stessi problemi di qualità dei componenti e dalla scarsa cura costruttiva. Per giunta sia le GTL che le SD erano più costose delle concorrenti. Inutile dire che vennero presto abbandonate in favore dei ben più efficienti modelli con il glorioso bicilindrico a L dell’Ingegner Taglioni.
Suzuki RE 5 Wankel, assetata di benzina
A metà degli anni ‘70 si era creato molto interesse intorno al motore Wankel con pistone rotativo e molti costruttori sperimentarono dei prototipi, ma soltanto Hercules, Norton e Suzuki li misero in produzione. Per la sua architettura il propulsore aveva una eccezionale regolarità di funzionamento, nessuna vibrazione e prestazioni interessanti. La Casa giapponese adottò quello prodotto in Germania dalla NSU sulla RE5 presentata al Salone di Tokyo del 1973, una moto “vestita” da Giugiaro con una linea piuttosto tradizionale che ricalcava quella della Suzuki GT 750. Non fu un grande successo, perché l’azienda investì somme enormi nel progetto ma la risposta del pubblico, interessato ma titubante, fu tiepida. Le perplessità erano fondate: il motore Wankel aveva diversi aspetti positivi ma era afflitto da un consumo elevatissimo e lo spigolo dei pistoni triangolari, che avrebbe dovuto assicurare la tenuta, si consumava molto velocemente. I tempi non erano maturi per quella soluzione, e non lo sarebbero stati mai perché presto venne abbandonata da tutti i costruttori.
Bimota V2 500, il motore era di cristallo
Qualcuno l’ha definita la race replica di una moto che non ha mai corso ed è una definizione che la inquadra perfettamente: la Bimota la progettò con l’obiettivo di schierarla nel Motomondiale classe 500 ma scoprì che sarebbe stato necessario un budget fuori dalla portata, dunque il progetto venne riconvertito in una moto stradale. Una 500 a due tempi spinta da un motore bicilindrico a V di 90° rivolto in avanti, con l’alimentazione a iniezione elettronica che per quegli anni era una soluzione avanzatissima. Nella prima versione dava 110 CV a 9000 giri/minuto e 90 Nm a 8000 giri/minuto, in linea con le 750 sportive di quei tempi, e pesava soltanto 164 kg a secco. Il telaio era in una versione più stradale rispetto al progetto originale ma era sempre all’avanguardia, con il telaietto posteriore sostituito da una monoscocca di carbonio. Il risultato era una moto bellissima e allettante, ma comunque rivolta a un pubblico limitato e soprattutto affetta da gravi problemi di motore: l’iniezione elettronica causava problemi di carburazione, c’erano problemi di affidabilità e tendeva a grippare. Venne costruita una prima serie di 150 esemplari nel 1993, successivamente venne prodotta una serie di 26 esemplari in versione trofeo, che non poteva circolare su strada, e dopo il 2001 un privato acquistò la licenza di produzione e costruì altre 164 moto, con l’alimentazione a carburatori. Insoddisfacente sul piano commerciale, la Bimota V2 è un cult per i collezionisti.
BMW K1, troppo originale
È una moto che decisamente non passa inosservata, fin troppo originale, e probabilmente questa è stata la prima ragione del suo insuccesso: i clienti BMW non la riconoscevano come una BMW, decisamente lontana dall’eleganza classica che distingueva allora la produzione della Casa dell’elica. Progettata come granturismo sportiva, venne prodotta tra il 1988 il 1993 in soli 6921 esemplari. Era basata sulla precedente K100 e montava il motore quattro cilindri a sogliola di 987 cm³, un’unità che per la sua particolarissima architettura già era stata mal digerita dagli aficionados del boxer. Era un motore all’avanguardia, con quattro valvole per cilindro, il raffreddamento a liquido e l’alimentazione a iniezione elettronica, aveva il cambio cinque marce e la trasmissione finale ad albero cardanico. Fu anche il primo BMW a 16 valvole e il primo con la centralina Motronic. La K1 aveva la sospensione posteriore monobraccio Paralever con ammortizzatore Bilstein. Il peso secco era di circa 245 kg che non sono pochi, ma è un dato che non ha mai spaventato gli utenti BMW. Quello che rompeva con la tradizione era lo styling: carrozzeria integrale con una carenatura spigolosa e profilatissima, un codone di notevoli dimensioni e il parafango anteriore che carenava la ruota, e grafiche decisamente vistose. Impossibile montare le borse, accessorio indispensabile per una touring, a causa dell’ingombro del codone. Era troppo per un pubblico tradizionalista come quello dei clienti BMW, per cui la K1 venne accolta con scarso entusiasmo. Dopo sei anni lasciò il passo alla K1100 RS, che ebbe decisamente migliore fortuna.
Honda NM4 Vultus, dai manga alla strada
Anche gli angeli mangiano fagioli e qualche volta anche una Casa affidabile come la Honda sbaglia il bersaglio. Chissà, forse lo styling della NM4, nota anche come Vultus, era troppo avanti per i tempi. O forse era troppo “fumettistica” per i motociclisti europei. Venne prodotta dal 2014 al 2019 e in Italia fu disponibile solo fino al 2017, ma ne vennero venduti pochissimi esemplari. Il design era ispirato a Vultus 5, un anime di fantascienza giapponese risalente al 1977 del quale era protagonista un robot: carrozzeria voluminosa e futuristica che abbracciava tutto il veicolo nascondendo la parte tecnica, con la particolarità di uno schienale verticale che all’ occorrenza poteva venire reclinato diventando sella del passeggero. Ai lati del fanale la carrozzeria si allargava quasi a formare due ali e si allungava in avanti con due protuberanze a punta nelle quali erano inserite le frecce. La posizione di guida era quello di uno scooter.
Sotto era molto meno rivoluzionaria perché la piattaforma tecnica era quella della Honda NC 750 o dell’Integra, il maxi scooter-quasi moto della Casa di Tokyo: motore bicilindrico parallelo di 745 cm³ con 55 CV a 6250 giri/minuto di potenza e 68 Nm a 4750 giri/minuto di coppia, con la collaudata trasmissione automatica a doppia frizione DCT. Anche la ciclistica era più o meno la stessa, sia pure con un cannotto di sterzo più “aperto” e un gommone posteriore da 200/50. Tra le curve si guidava bene, meno in città a causa degli ingombri, mentre in autostrada la protezione del cupolino troppo basso era insufficiente. Scarsa anche la comodità del passeggero. Il motore invece dava soddisfazione, caratterizzato da un ottimo tiro ai bassi regimi, da un discreto allungo e da consumi contenuti, così come era eccellente il funzionamento del cambio. Beato chi ne ha comprata una e se l’è tenuta, ce ne sono così poche che già dopo pochi anni ha un valore collezionistico.
Piaggio Cosa, il sacrilegio
Nelle intenzioni della Casa di Pontedera avrebbe dovuto sostituire l’ormai datata Vespa PX, della quale comunque conservava numerosi elementi fondamentali: in particolare gran parte della meccanica e della scocca in acciaio che ha funzione di telaio e carrozzeria, come da tradizione. Però c’erano alcuni elementi in plastica come il parafango anteriore, lo spoiler e il coprimanubrio, e soprattutto venne realizzata una nuova silhouettes che era più aerodinamica del 10% ma era anche poco originale e troppo spigolosa. Non piacque al pubblico, e ancora più determinante fu il cambiamento del nome: la Vespa è la Vespa, chiamarla Cosa la rendeva inaccettabile alla grande massa degli utenti legati a un’immagine precisa. C’erano stati notevoli miglioramenti, come l’introduzione di un vano sottosella, una nuova trasmissione molto più precisa negli innesti e l’impianto frenante a pedale integrale, sospensioni più confortevoli e un cruscotto all’avanguardia. Tutto inutile, la Cosa non era una Vespa: nel 1993 la vecchia PX venne rimessa in produzione per tappare la falla e nel 1995 la Cosa venne pensionata, senza rimpianti.
Husqvarna Nuda 900, durò troppo poco
Venne costruita a Varese tra il 2012 e il 2013 a seguito dell’acquisizione del marchio svedese da parte di BMW e aveva degli spunti interessanti. Una supermotard stradale bicilindrica che montava il motore della BMW F 800 modificato, installato in un telaio molto simile a quello della F 800 GS. Ai giornalisti che la provarono piacque, al pubblico no: i motociclisti la trovarono troppo simile alla BMW dalla quale effettivamente era derivata, mentre non riconoscevano come produttore di moto stradali il marchio che portava, legato una lunga tradizione off road. Rimase in produzione un paio d’anni e nel 2013 venne fermata, dopo l’acquisizione dell’Husqvarna da parte della KTM. Paradossalmente adesso è apprezzata dagli appassionati, e una volta all’anno nella foresta bavarese intorno a St. Englmar si tiene un meeting dedicato alla Nuda 900 che raccoglie motociclisti provenienti da tutta Europa. Ma nello stabilimento di Cassinetta di Biandronno (VA) non ha lasciato un buon ricordo.
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