Laverda OR 600 Atlas: la storia della dakariana incompiuta
Guardando a ciò che è stato, sono numerosi gli esempi di moto ben progettate, ben realizzate ma arrivate sul mercato in un momento sbagliato. La Laverda OR 600 Atlas è tra queste: una moto ambiziosa e dalle soluzioni tecniche originali, arrivata però troppo tardi: fu un peccato. Ecco la sua storia…
Una maxi-enduro nata in ritardo
Nel 1986 la Laverda prova a inserirsi in un settore di moda come quello delle endurone da viaggio, dominato da BMW con la GS e dalle giapponesi. La risposta di Breganze si chiama OR 600 Atlas, una moto dalle ambizioni altissime, presentata come una vera alternativa italiana alle rivali più affermate. Ma la realtà è un’altra: la casa veneta vive una fase di crisi drammatica, che la porterà a chiudere i battenti già nel 1989. Così, nonostante le buone qualità tecniche e il giudizio positivo della stampa, l’Atlas non riuscirà mai a imporsi davvero.
Dalla collaborazione con BMW alle prime idee
La genesi della Atlas affonda le radici addirittura nella metà degli anni Settanta, quando Laverda fu coinvolta da BMW nello sviluppo dei primi prototipi GS. Tra il 1975 e il 1978 i tecnici di Breganze collaborarono con Monaco per preparare dieci moto destinate alla Parigi-Dakar.
Da quell’esperienza nacque la consapevolezza che anche Laverda potesse cimentarsi con una enduro “totale”, adatta a tutti i terreni. Già nel 1981 comparve un primo prototipo, il Trail 500, progettato da Giulio Franzan: telaio snello, cupolino compatto, paramani e motore bicilindrico fronte marcia da 500 cm³. Non era ancora il momento giusto: la moto rimase allo stadio di prtotipo, mentre l’azienda cercava una direzione chiara.
Dal prototipo al modello di serie

Dopo ulteriori sviluppi, nel 1985 venne presentato al Salone di Milano un secondo prototipo, e finalmente, nel 1986, la moto definitiva.
La OR 600 Atlas riprendeva il bicilindrico parallelo raffreddato ad aria di 497 cm³ già usato sulle 500, portato però a 572 cm³ con l’aumento dell’alesaggio (da 72 a 76 mm) e della corsa (da 61 a 63 mm). Per aggiornarlo furono introdotti anche un contralbero di equilibratura, valvole maggiorate, nuovi alberi a camme, pistoni a bassa compressione, una pompa dell’olio più capace e un radiatore maggiorato. Risultato? 50 CV erogati da un motore non di nuova concezione, ma reso più fluido e regolare, alimentato da un carburatore doppio corpo Dell’Orto DHLA32, di derivazione automobilistica. La trasmissione finale era a catena, con cambio a 6 marce e frizione multidisco in bagno d’olio. Non mancavano avviamento elettrico e accensione elettronica.
Ciclistica e componenti
Il telaio era un classico monotrave a culla sdoppiata in tubi d’acciaio, abbinato davanti ad una forcella Marzocchi da 41 mm con escursione di 240 mm e, dietro, ad un monoammortizzatore Soft-Ramble progressivo da 200 mm. La ruota anteriore era ovviamente da 21”, mente la posteriore da 17” e l’impianto frenante, firmato Brembo, era composto da un disco da 260 mm con pinza a due pistoncini davanti e da un disco da 230 mm dietro. Il tutto per un peso sulla bilancia di 206 kg, a cui si aggiungevano i 25 litri di carburante contenuti nel serbatoio.
Su strada e in fuoristrada

Le prove dell’epoca sottolineavano la silenziosità e la regolarità ai bassi regimi, con un’erogazione piena sopra i 3.000 giri e freni adeguati. La stabilità del telaio era unanimemente apprezzata, meno la “sportività”, assai lontana dai fasti delle Laverda stradali degli anni Settanta.
Il peso elevato penalizzava l’uso nel fuoristrada impegnativo, rendendo l’Atlas più adatta ai lunghi trasferimenti su asfalto e sterrati leggeri. Un compromesso tipico delle maxi-enduro dell’epoca, ma che finì per limitarne l’appeal: le vendite, contrariamente a quanto ci si aspettava in Laverda, non decollarono.
Tre serie e poche vendite
Dal 1986 al 1990 furono prodotte tre versioni principali della Atlas.
- La prima serie (la più diffusa) con telaio bianco, carene bianco/blu o rosse con filetti oro/nero, sella blu o rosso/nero.
- La seconda serie con telaio azzurro e carene bianco/azzurro, senza tricolore.
- La terza serie con ulteriori aggiornamenti estetici, prese d’aria ai lati del serbatoio e nuovi radiatori dell’olio, disponibile anche in rosso.

Versioni speciali e ultime evoluzioni
Laverda ci riprovò lanciando nel 1986 anche una versione 50 cm³, identica esteticamente alla Atlas ma in scala ridotta, pensata per i giovani.
Nel 1988 arrivò un restyling con carene più filanti, codino ridisegnato, due radiatori dell’olio ai lati del serbatoio, accensione Motoplat e frizione idraulica. Ma neppure queste migliorie cambiarono il destino commerciale della moto.
Al Salone di Milano fu presentata anche una variante da 668 cm³ a iniezione elettronica Weber-Marelli, soprannominata El Cid. Con 70 CV e doppio disco anteriore: una “rivale” della Yamaha Super Ténéré, ma che rimase un prototipo senza seguito.

Una storia di occasioni mancate
La OR 600 Atlas non era una moto sbagliata: era solida, ben costruita, piacevole da guidare. Il suo vero limite fu una rete vendita e assistenza insufficiente, incapace di sostenerne la diffusione. Così, la moto che avrebbe potuto essere la maxi-enduro italiana per eccellenza restò un progetto incompiuto. Eppure, un segno lo lasciò: nel 1990 una Atlas partecipò alla Parigi-Dakar con Fabio Guerrini, dimostrando che, nonostante tutto, lo spirito d’avventura della Laverda non s’era del tutto spento.
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