Laverda 750 S, solo per veri duri
Voluta da Massimo Laverda per sfidare le maxi britanniche sul terreno della robustezza, la 750 S fu il primo vero passo sportivo della Casa di Breganze. Solida, pesante e grintosa, aveva un cuore bicilindrico che non lasciava dubbi: era nata per durare e correre
Laverda 750 S
Nel 1969 - cioè alcuni d'anni prima della 1000 3C - Laverda presentò la sua prima vera moto sportiva di grossa cilindrata: la 750 S. Nata per sfidare le maxi inglesi in affidabilità e prestazioni, la “S” rappresentava un punto di svolta nell’evoluzione della Casa di Breganze. Rispetto alla 750 GT, la 750 S vantava una maggior compressione e un telaio rinforzato, per garantire un comportamento più pronto e incisivo su strada. Riscosse un notevole successo, sia in Italia - nel 1972, anno fu la maximoto più venduta nel Paese – che sui mercati esteri. La formula messa a punto da Laverda piaceva: design moderno, meccanica avanzata e prezzo particolarmente competitivo, cioè poco più di un milione di lire nel 1972, contro il 1.280.000 lire della Honda CB750 Four e il 1.480.000 della Moto Guzzi V7 Sport.
Tecnica
Dopo il successo della 650 GT e l’esperienza della 750 GT. Laverda decise di alzare l’asticella: la 750 S (seguita a stretto giro dalla SF “Super Freni) esordì con una compressione più elevata per un totale di circa 60 CV. Il motore, pur rimanendo un SOHC parallelo a due cilindri, era rinforzato nei punti critici, quindi bielle a doppio rullo, cuscinetti maggiorati ed un nuovo albero motore. Nel complesso, la 750 S si faceva riconoscere per peso e robustezza: circa 220 kg a secco, quasi il doppio di una media inglese. Portarla a spasso richiedeva braccia forti e decisione, ma la stabilità era granitica ed il rumore degli scarichi inconfondibile. Il “bestione di Breganze” non perdonava indecisioni, ma una volta “domato” restituiva sicurezza anche sul veloce, grazie alle ottime sospensioni - Ceriani - e all’altrettanto ottimo telaio che sfruttava il motore come elemento portante. La scheda tecnica parla da sè…
Motore
La Laverda 750 S montava un bicilindrico parallelo SOHC a quattro tempi raffreddato ad aria, con una cilindrata di 744 cm3 (alesaggio 80 mm, corsa 74 mm). L’albero motore, con manovellismo a 360°, era sostenuto da cuscinetti maggiorati e bielle a doppio rullo, scelte tecniche che assicuravano robustezza e una coppia pronta ai medi regimi. L’alimentazione era affidata a due carburatori Dell’Orto PHF 36 AS (sinistro) e PHF 36 AD /destro) con vaschetta centrale e pompetta di ripresa, mentre l’accensione era elettronica. Grazie a un rapporto di compressione calibrato per esaltare l’allungo, il motore erogava circa 66 CV a 6.900 giri/min e sviluppava un valore di coppia vicino agli 81 Nm a 6.500 giri/min. Il tutto per una velocità massima che sfiorava i 200 km/h. Il cambio a cinque marce, con rapportatura ravvicinata, e l’avviamento elettrico completavano il gruppo trasmissione, rendendo la laverdona una moto abbastanza pratica - anche se impegnativa - in uso quotidiano.
Ciclistica
La ciclistica si basava su un telaio in acciaio che sfruttava il motore come elemento portante per aumentare la rigidità torsionale. All’anteriore era montata una forcella telescopica Ceriani con steli da 35 mm, abbinata a doppio ammortizzatore Marzocchi posteriore regolabile in estensione, configurazione che combinava precisione di guida e comfort alle basse velocità. Le ruote a raggi equipaggiavano pneumatici da 18" mentre l’impianto frenante originale prevedeva un singolo tamburo anteriore da 230 mm, poi raddoppiato sul modello 750 SF; al retrotreno restava un tamburo singolo da 230 mm. L’interasse di 1.460 mm e il peso a secco di circa 220 kg conferivano alla 750 S una stabilità notevole, sebbene richiedessero una certa forza per orientarla nelle curve più strette. Il serbatoio da 19 litri offriva un’autonomia che superava i 200 km anche in percorrenze autostradali sostenute.
Le prove e le prestazioni
La prima comparativa strumentale delle maxi-moto realizzata in Italia apparve su Motociclismo nel numero di settembre 1972. Vi furono messe l’una accanto all’altra la Ducati GT 750, la Honda CB 750 F, la Kawasaki H2 750, la Laverda SF 750, la Moto Guzzi V7 Sport e la Suzuki GT 750 J: un vero e proprio “stellone” di bicilindriche e tricilindriche dell’epoca. In questa sfida la Laverda conquistò i risultati meno brillanti, coprendo i 400 m da fermo in 13″930 e superando il traguardo a 137,4 km/h. La Kawasaki bicilindrica a due tempi primeggiò invece con 12″170 e 157,29 km/h. Un curioso retroscena svela che Massimo Laverda, per principio, si era opposto a questa prova e aveva persino rifiutato di fornire la moto ai tester. All’ultimo istante la redazione riuscì a procurarsene una dal concessionario milanese L’Abruzzi, ma quella in prova non era evidentemente nelle migliori condizioni. Soprattutto nelle accelerate la Laverda pagava dazio al peso – superiore ai 220 kg – restituendo sensazioni di lentezza. Nella versione SF 750 del 1973, però, fece meglio: 13″272 sui 400 m da fermo e 195 km/h a 7 600 giri/min, valori che nemmeno i modelli successivi riuscirono a superare.
Tutti i modelli e le versioni
GT (1966–1975)
Le prime Laverda arrivarono sul mercato con la sigla GT e un bicilindrico da 650 cm3; dal 1968 la cilindrata crebbe a 750 cm3, e con lievi modifiche estetiche le GT restarono in listino fino al 1975. Il loro aspetto si riconosceva per il manubrio alto, la sella biposto e l’immancabile portapacchi sul serbatoio.
S (1969–1970)
Derivata dalla GT, la S si distingueva per la sella monoposto con codino sporgente, il serbatoio rastremato con ginocchiere in gomma e i parafanghi arrotondati. La forcella era protetta da soffietti e il manubrio più basso, mentre telaio e motore ricevettero rinforzi interni, il cambio ottenne rapporti più ravvicinati e i freni guadagnarono maggiore potenza.
SF/0 prima serie (1970–1971)
Denominata “zero” per distinguerla dalla successiva, la SF, acronimo di “Super Freni” manteneva il serbatoio a svasatura tipico della S, ma introduceva telaio ribassato di 2 cm e motore spostato di 4 cm verso il basso per abbassare il baricentro. La forcella, meno inclinata, perse i soffietti e il forcellone fu rinforzato per consentire inclinazioni maggiori. Gli ammortizzatori posteriori divennero quasi verticali e il cerchione posteriore montava un perno sporgente per semplificare lo smontaggio, ma la vera novità era appunto il nuovo impianto frenante “Super Freni”.
SF/1 (1972–1973)
La SF/1, tra le più celebrate, sfoggiava un serbatoio pronunciato e un codino con piccolo vano portaoggetti. Nel 1973 arrivarono il faro CEV dal profilo ribassato e la strumentazione Nippon Denso. Il motore montava valvole maggiorate (41,5 mm all’aspirazione e 35,5 mm allo scarico), carburatori da 36 mm e scarichi da 40 mm, con rapporto di compressione portato da 9,6:1 a 8,9:1 e potenza salita a 66 CV. Anche il tappo serbatoio, le trombe di aspirazione e il cavo frizione furono riprogettati, mentre il perno del forcellone adottò bronzine al posto dei silent‑block.
SF/2 (1973–1974)
Rispetto alla SF/1, la SF/2 cambiò pochissimo: il principale intervento fu l’opzionale freno a disco anteriore, lasciando però il tamburo al posteriore.
SF/3 (1975–1978)
Ultima evoluzione, la SF/3 introdusse le ruote a cinque razze, un codino rivisto, tre freni a disco e l’accensione elettronica. A questo punto Laverda dirottò le risorse su altri modelli.
GTL (1974–1978)
Per la polizia fu prodotta la GTL, derivata dalla GT: serbatoio maggiorato, sella per passeggero con maniglione, fianchetti raccordati e colori istituzionali rosso-blu. La versione “polizia” prevedeva anche parabrezza, sella monoposto e paracavallo.

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