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Laverda 1000 3 cilindri, solo per motociclisti duri e puri

Nata per rispondere alla strabordante concorrenza giapponese, la Laverda 1000 3C si impose grazie a una meccanica raffinata e ottime prestazioni. Non era perfetta, ma il suo carattere forte conquistò motociclisti in tutta Europa. Oggi è un’icona del motociclismo italiano degli anni Settanta 

Laverda 1000 3 Cilindri

Esposto al Salone di milano del 1969, il prototipo della tre cilindri nasceva da un ordine ben preciso dettato dallo stesso Massimo Laverda: serviva un tricilindrico leggero e stretto quanto un 750, ma più potente di quello montato dalla Honda CB750. Un audace sviluppo del bicilindrico SF750, cui venne aggiunto un terzo cilindro per superare la soglia delle 750 cm3. Sulla carta c’era tutto il necessario ber battere la concorrenza: distribuzione monoalbero e raffreddamento ad aria, 75CV di potenza a 6.700giri per una velocità massima di 200km/h. Tuttavia, le cose non andarono come previsto...

Dalle sperimentazioni al DOHC (1970‑1971)

Il prototipo originale mostrò limiti di potenza e affidabilità. Nel corso del 1970 fu introdotto il motore con doppio albero a camme in testa (DOHC), azionato da una cinghia, scelta poi abbandonata perché “poco elegante” dal punto di vista estetico e, non meno importante, poco affidabile in fatto di durevolezza. Il definitivo colpo di scena avvenne nel 1971 quando al Salone di Milano debuttò il prototipo 1000C, con DOHC ed nuovo telaio a doppia culla in tubi d’acciaio. Il motore dichiarava circa 80CV a 7.000giri. 

Soluzioni inedite

Il muscoloso 3 cilindri Laverda aveva una configurazione atipica

Nel 1972 Laverda avviò la produzione della 10003C, confermando il motore tricilindrico DOHC da 981cm3. L’albero motore adottava una configurazione decisamente atipica: le due manovelle laterali allineate a 0°, mentre quella centrale disassata di 180°. Uno schema poco comune, soprattutto se confrontato con l’impostazione a 120° dei tricilindrici inglesi dell’epoca — come la Triumph Trident o la BSA Rocket 3 — e pensato per ridurre al minimo vibrazioni e flessioni alle estremità dell’albero. Un accorgimento importante, considerata la posizione quasi centrale della catena di distribuzione. Il risultato? Un sound inconfondibile, ben lontano da quello dei classici tre cilindri britannici, tanto da ricordare piuttosto quello di un quattro cilindri che “lavora a tre”.

Il motore

Il motore era come detto un tre cilindri in linea da 981cm3, raffreddamento ad aria, DOHC, distribuzione a catena, manovelle a 180°. Alimentazione: 3 Dell’Orto PHF32. Accensione: Bosch a magnete. Cambio: 5 marce, frizione multidisco in bagno d’olio, trasmissione finale a catena triplex .

La ciclistica

La ciclistica riprende quella già vista sulla 750 SF: Il telaio a doppia culla in tubi d’acciaio era abbinato a sospensioni con forcella Ceriani da 35mm e ad un doppio ammortizzatore posteriore regolabile I freni, inizialmente a tamburo anteriore doppia camma, vennero sostituiti nel 1974 con doppio disco anteriore Brembo da 280mm. Il serbatoio conteneva circa 19L. Il tutto per un peso sulla bilancia di 230 kg. 

Limiti evidenti ma "perdonabili"

La nuova Laverda riuscì a farsi amare nonostante una serie di difetti evidenti, soprattutto nei primi esemplari. Le finiture erano essenziali, quasi spartane; le sospensioni fin troppo rigide; la frizione decisamente dura da azionare (un difetto comune a tutte le maxi laverda). E se il peso si faceva sentire, soprattutto nelle manovre da fermo o a bassa velocità, nemmeno la maneggevolezza in movimento poteva dirsi esemplare. Eppure, proprio come accadeva con le maxi giapponesi coeve – criticate spesso per motivi opposti – tutto questo passò in secondo piano. Anche l’impianto di accensione Bosch montato nella prima serie, soggetto a noie in caso di umidità, era poco più di un fastidio accettato da chi cercava prestazioni solide e un motore che non lasciava indifferenti. Alla fine, contava il piacere di guida. E su quel fronte, la 1000 tre cilindri sapeva farsi perdonare tutto, o quasi. 

Le prestazioni non delusero, ma il prezzo…

Dal punto di vista dell’immagine, la nuova Laverda 1000 si presentava come una moto prestigiosa e moderna. I test strumentali condotti all’epoca confermarono le sue qualità: la velocità massima rilevata era di 209,74 km/h, con un’accelerazione sui 400 metri coperti in 12,210 secondi e una velocità d’uscita di 174,6 km/h. Numeri interessanti, anche se leggermente inferiori a quelli della rivale giapponese più agguerrita, la Kawasaki Z1 900, accreditata di 212,6 km/h di punta, uno 0–400 in 12,153 secondi e velocità finale di 178,2 km/h. 
Il vero tallone d’Achille, tuttavia, era rappresentato dal prezzo. Al lancio, nel 1972, la Laverda costava 1.593.000 lire IVA inclusa, una cifra seconda solo alla lussuosa MV Agusta 750 SS (1.900.000 lire). Tutte le altre concorrenti si attestavano su cifre più contenute: la sopracitata Z1, per esempio, costava 1.550.000 lire, la Triumph Trident 1.350.000, e la Suzuki GT 750 1.365.000. 

Fu (comunque) un successo

Nonostante ciò, l’handicap economico non sembrò frenare più di tanto la corsa commerciale della tre cilindri veneta. Le vendite quasi raddoppiarono nel giro di due anni: dalle 1.910 unità del 1971 si passò a 3.052 nel 1972, mentre nei soli primi sei mesi del 1973 si superarono già le vendite totali del 1970 (1.096 esemplari), toccando quota 1.267. Il vero exploit, però, la Laverda 1000 lo registrò nel Regno Unito, dove trovò un mercato particolarmente ricettivo: quello stesso pubblico che già apprezzava motori tre cilindri come quelli di Triumph e BSA. Fu proprio grazie all’importatore inglese che nacque il nome “Jota”.

Evoluzione della specie 

Tra 1974 e 1977 la 10003C vide l’introduzione dei cerchi in lega (modello 3CL) e del freno a disco posteriore, insieme a piccoli miglioramenti tecnici Nel 1976 nasce la Jota (manovellismo a 120°, frizione idraulica), mentre nel 1982 viene presentata al Salone di Milano la variante 1000RGS (“Real Gran Sport”), con meccanica simile alla Jota, semicarena e codino monoposto, in produzione fino al 1986.

Un posto d’onore nel motociclismo italiano

Nata come risposta artigianale al dominio giapponese, la Laverda 1000 3 cilindri anticipò l’uso dei tricilindrici stradali ad alte prestazioni. Con la Jota e le varianti successive, influenzò le più tarde “maxi naked” europee come la RGS, la W650 e la ZRX. Successi che le valgono oggi un posto d’onore tra le grani moto italiane di un’epoca ormai lontana…

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Alessandro Agostini
Mer, 25/06/2025 - 15:44
Ma... Non so all'estero, ma da noi ne vendettero mooolto poche... A Roma credo di averne incontrata una sola
Giuseppe Iodice
Gio, 26/06/2025 - 13:54
Ho avuto la RGS 1000 rossa con bauletti in tinta dove però non ci entrava un fico secco. Per il resto era una gran moto. Ogni volta che mi fermavo si facevano capannelli di gente che la osservavano ammirati. Poi qualcuno si spingeva a chiedermi conto delle prestazioni e quant'altro. A Napoli eravamo parecchi ad avercela : tutti fighetti del vomero...Anche la nera era molto bella. Poi mi sono arrivati i ragazzi e mia moglie me l'ha fatta vendere. Mannaggia