Salta al contenuto principale

Shoichiro Irimajiri, l'uomo che sussurrava ai cilindri

Entrato in Honda nel 1963 e rimastoci per quasi trent’anni, Shoichiro Irimajiri firmò alcuni dei progetti più visionari del marchio, dal V12 di F1 al 6 cilindri della CBX, passando per il più “modesto” boxer della Gold Wing. Ecco la sua storia…

Taglioni, Tonti, Dall’Igna, nomi che richiamano alla mente la genialità dei “nostri” progettisti, veri visionari autori di capolavori tecnici e pietre miliari del motociclismo. Meno noti (almeno a noi europei) i “colleghi” giapponesi che erano forse meno “personaggi”, ma hanno scritto pagine altrettanto importanti. Uno su tutti? Shoichiro Irimajiri. Ecco la sua storia. 

Gli studi e l’ingresso in Honda

Shoichiro Irimajiri nasce a Kobe il 3 gennaio 1940, trascorrendo l’infanzia in un paese impegnato nella ricostruzione dopo il conflitto mondiale. Fin da giovane coltiva una passione per tutto ciò che vola e “va veloce”: si iscrive alla Facoltà di Ingegneria Aeronautica dell’Università di Tokyo, dove si distingue per le sue ricerche sui motori a getto e sulla dinamica dei fluidi. “Da piccolo volevo fare l’ingegnere aeronautico per lavorare su motori a reazione ad alte prestazioni”, ricorda Irimajiri in un’intervista. “Il mio idolo era Chuck Yeager, il pilota americano che per primo, poco dopo la seconda guerra mondiale, aveva superato il muro del suono con un aereo a reazione. Ma in Giappone negli anni Cinquanta non c’era alcuna prospettiva di lavoro nel settore, perché era vietato dai trattati di pace lo sviluppo per scopi militari di questo tipo di motore”. E così,  laureatosi con lode nel 1963 e dopo un a breve esperienza alla Mitsubishi aeronautica, viene reclutato da Honda Motor Co., Ltd., pronto a mettere a frutto la sua esperienza aerospaziale nel mondo delle due ruote. “Dopo aver terminato gli studi sono andato a lavorare alla Honda, dove ho avuto la fortuna di essere inserito nel gruppo che stava sviluppando le moto da GP con cui l’azienda partecipava al Campionato mondiale. Soichiro Honda spronava molto il nostro gruppo di giovani tecnici, alcuni neolaureati  con me. In quegli anni - ricorda - solo dieci persone erano destinate a lavorare sui motori da corsa, ed io ero uno di quei fortunati…”. 

Due decenni di trionfi in Honda  

All’interno di Honda, Irimajiri scala rapidamente le gerarchie diventando capo progetto dei motori da Gran Premio: firma i pluricilindrici a quattro valvole che dominano i circuiti mondiale degli anni ’60 e poi contribuisce allo sviluppo del V12 per la Formula 1. Il tutto, s’intende, sotto la stretta e pressante supervisione di Soichiro Honda, che pure, ammette Irimajiri, aveva un debole per lui. “Ricordo il giorno in cui ha visto per la prima volta il disegno del 12 cilindri a V della RA71 di F1 del 1966. Soichiro si è avvicinato alla lavagna dove appendevamo i disegni - racconta Irimajiri - urlando: Guardate qua razza di stupidi, non vedete che volete usare dei cuscinetti troppo grossi e che la lubrificazione dell’albero motore non è corretta? Con la forza centrifuga che si sviluppa in curva, ci saranno una parte dei cuscinetti inondati d’olio e l'altra completamente a secco. Rifate subito tutto”. “Ogni progetto era ben chiaro nella sua mente fin dall’inizio: noi eravamo solo dei giocattoli a cui faceva credere di lasciare la massima libertà di immaginazione per poi terminare il lavoro. È però altrettanto vero - aggiunge Irimajiri -  che su alcune idee era fossilizzato ed era difficilissimo fargli cambiare parere…. 

La nascita della Gold Wing GL1000

Abituatosi alla “filosofia aziendale” di Honda secondo la quale, come lui stesso racconta, “ogni ingegnere doveva essere pronto a cambiare radicalmente tipologia di lavoro da un momento all’altro senza poter controbattere”, all’inizio degli anni 70 Irimajiri si ritrovò alla guida di un team segreto che, nel 1972, avrebbe dato vita al prototipo M1 – un flat-six da 1.470 cm3 con raffreddamento a liquido e trasmissione a cardano – pensato come “King of Kings” del settore. Sono le basi della mitica Gold Wing GL1000, prima moto di serie giapponese con motore quattro cilindri boxer raffreddato ad acqua: “Era un gran motore - ricorda Irimajiri - ridotto a quattro cilindri solo per diminuire i costi di produzione”.  La Gold Wing debutta al Salone di Colonia del 1974: serbatoi laterali integrati, protezioni aerodinamiche e un motore dall’erogazione morbida ma poderosa inaugurano un nuovo segmento di mercato. Negli anni successivi, ogni sua evoluzione (GL1100, GL1200, GL1500 e GL1800) affina la combinazione di comfort, autonomia e affidabilità, diventando - soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa – sinonimo di viaggio senza compromessi. “Sinceramente, alla sua presentazione non pensavamo ottenesse un simile successo e che la Gold Wing sarebbe rimasta limitata agli USA. Invece, in breve tempo, è diventata il best seller mondiale che tutti conosciamo…”.  

La Honda CBX a sei cilindri

Forte dell’esperienza maturata sui motori da Gran Premio a sei e cinque cilindri degli anni ’60, nel 1978 Irimajiri fu nominato project leader del progetto CBX. Il risultato fu il sei cilindri in linea da 1.047 cm3 raffreddato ad aria, capace di circa 105 CV a 9.000 giri/min. Per contenere ingombri e peso – sfide cruciali su un motore così largo – Irimajiri optò per l’uso generoso di alluminio e magnesio e riposizionò alternatore e accensione su un jackshaft separato dietro al basamento, riuscendo a ridurre sensibilmente la larghezza complessiva del gruppo motore. Sorprendente fu anche la rapidità di sviluppo: dal via libera al prototipo al lancio sul mercato passarono appena 18 mesi. Alla presentazione, la CBX si impose come la superbike più potente e raffinata dell’epoca, divenendo in breve un’icona per gli appassionati nonchè un banco di prova per tecnologie poi trasferite su altri modelli Honda. 

Il progetto NR e la nascita di HRC

Un anno più tardi, nel 1979, Irimajiri passò alla guida del team che diede vita all’NR500 (“New Racer”, qui la sua storia), modello destinato a riportare Honda ai vertici del Motomondiale quattro tempi. La genialità del progetto stava nell’ “oval piston”: ogni cilindro ospitava pistoni ovali con otto valvole, per simulare il comportamento di un V8 e superare i limiti delle quattro valvole tradizionali. Pur non avendo raccolto particolari vittorie, l’NR500 fornì un bagaglio di soluzioni tecniche che avrebbero ispirato le future generazioni di motori Honda.  Per me - racconta - il progetto NR è stato un’esperienza fantastica, un laboratorio viaggiante che mi ha permesso di imparare ed arricchire la mia esperienza con i motori a quattro tempi”. Non per nulla, il 1° settembre 1982, da quel bacino di competenze, venne costituita la Honda Racing Corporation (HRC) come entità autonoma dedicata esclusivamente alla progettazione, alla produzione ed alla vendita di moto e componenti per le corse. Irimajiri ne fu nominato presidente, guidando la neonata HRC nei trionfi della NS500 – la due tempi con cui Freddie Spencer conquistò il titolo mondiale 500 cm3 nel 1983 – e nel successivo dominio delle NSR nei primi anni 80. Le intuizioni di Irimajiri e del suo team furono, ovviamente, fondamentali, ma come lo stesso protagonista di questa nostra storia ricorda, il merito di tali successi andrebbero equamente distribuiti: “Le competizioni sono una corsa senza fine verso il progresso, dove si mixano tecnologia e fattori umani. Se la tecnologia prende un vantaggio troppo sensibile, lo sport si può perdere per strada. Negli sport motociclistici la percentuale in favore della tecnologia sale ancora di più, credo che nel motociclismo ci sia la parità: 50 % - 50% fra uomo e macchina. Mantenere un buon equilibrio, anzi, l’equilibrio perfetto, è fondamentale…”. 

A proposito di “equilibrio”

Considerato quanto ricordato sopra, suonano interessanti, se non addirittura profetiche, le parole spese da Irimajiri in merito all’evoluzione tecnologica dei motori e, in particolare, ai risultati ottenuti con la Honda RC211V da Moto GP: il suo motore - diceva ancora una ventina d’anni fa - credo che potrebbe raggiungere facilmente i 300 CV, ma a che scopo? Gli ingegneri ritengono che i 240 CV di cui è capace in questo momento siano più che sufficienti. I motori da F1 hanno invece potenze superiori ai 900 CV. Di questi, il pilota non ha affatto un controllo assoluto. Interviene l’elettronica che decide come, quando ed in che modo erogare la potenza. E in futuro sarà sempre peggio, relegando il fattore umano a livelli sempre più marginali ed inconsistenti e se non si interverrà alla svelta, il pilota sarà solo un complemento alla tecnologia meccanica”.

La battaglia con la salute e il salto nella console  

Nel 1992 un problema cardiaco lo costringe a dimettersi da Honda; recuperata la forma con terapie alternative, viene contattato nel 1993 da Hayao Nakayama, allora presidente di Sega, che lo vuole come vicepresidente dell’azienda. “La mia decisione di lasciare Honda non è stata un’amara reazione al fatto che fossi stato nominato solo vicepresidente della Compagnia. Quando sono rientrato a vivere in Giappone dopo l’esperienza negli Stati Uniti, ho avuto dei seri problemi di salute che mi hanno impedito di lavorare per almeno un anno. Al mio ritorno in azienda come vicepresidente ho realizzato che alla Honda avevo ormai raggiunto tutto o quasi. Avevo bisogno di nuovi stimoli e nuove motivazioni, perché senza nuovi obbiettivi tendo a deprimermi. È questa la principale motivazione per cui ho abbandonato Honda. Visto che l’elettronica mi ha sempre appassionato - ricorda - ho accettato l’incarico della Sega Company, che a quei tempi aveva grandi progetti di espansione…”. Nel 1996 assume anche il ruolo di chairman e CEO dell’azienda, mentre nel 1998 diventa presidente del gruppo a livello mondiale.  Alla guida di Sega, Irimajiri lancia il progetto Dreamcast con l’obiettivo di recuperare quote di mercato dopo il flop di Saturn e 32X. La console viene apprezzata per le soluzioni di rete e l’innovazione hardware, ma tre anni di perdite consecutive lo costringono, nel 2000, a lasciare la presidenza.

Aggiungi un commento