L’incubo di Iwata: storia della Yamaha TX 750
Pensata per sfidare le maxi bicilindriche europee e le giapponesi a quattro cilindri, la Yamaha TX 750 avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta. Invece, i suoi gravi problemi di affidabilità la trasformarono presto in un incubo tecnico e commerciale. Ecco la sua storia
La Yamaha TX 750 avrebbe dovuto rappresentare la risposta ai nuovi quattro tempi di grossa cilindrata. Invece, rimase un clamoroso passo falso, ricordata più per i suoi guasti che per le sue innovazioni. Un vero incubo per la casa di Iwata, che tuttavia, da questi errori imparò molto in materia di sviluppo, collaudi e gestione dei richiami…
La nascita di un progetto ambizioso
Siamo agli inizi degli anni Settanta e la “questione ambientale” si fa sempre più pressante: le limitazioni in fatto di inquinamento sono sempre più stingenti e i costruttori “obbligati” ad adottare soluzioni tecniche che riducano le emissioni. Sono gli anni in cui nascono i nuovi motori quattro tempi pluricilindrici, più confortevoli e potenti. Yamaha, che dal canto suo ha ancora un’immagine fortemente legata ai due tempi, capì in breve l’esigenza di un cambio di rotta. E così, dopo il debutto della XS 650 nel 1970, nel 1972 arrivò il nuovo progetto: la TX 750, apparentemente simile ma in realtà frutto di una concezione del tutto nuova. La moto fece la sua prima apparizione nell’ottobre 1972 su Yamaha News e poco dopo al Salone di Tokyo, per poi debuttare sul mercato giapponese a luglio e negli Stati Uniti verso la fine dell’anno, al prezzo di 1.554 dollari. Prometteva bene ma, in breve, cominciarono i problemi…
Un motore tanto sofisticato quanto problematico
Il cuore della TX 750 era un bicilindrico parallelo di 743 cm³ inclinato in avanti, raffreddato ad aria, monoalbero a catena e con distribuzione a due valvole per cilindro. Alimentato da due carburatori Mikuni da 38 mm, erogava 63 CV a 7.500 giri/min e una coppia di 7 kgm a 6.000 giri. La vera innovazione era il sistema Omni-Phase Balancer, con due contralberi mossi a catena progettati per eliminare le vibrazioni tipiche dei bicilindrici paralleli. Il risultato, come scrissero diverse riviste, fu una fluidità mai vista su un twin: Cycle World parlò di “morbidezza incredibile”, mentre Cycle lo definì “il motore bicilindrico più avanzato nel mondo delle moto”. Ma dietro a tanta raffinatezza si nascondeva un errore fatale.
L’incubo dell’affidabilità
Le segnalazioni di guasti arrivarono quasi subito, soprattutto dall’Europa. Diverse le ipotesi: filtro dell’olio in posizione anomala, circuito di lubrificazione troppo complesso, qualità degli oli non adeguata. Ma le cause principali furono due: il calore eccessivo generato dal collettore di compensaziobe tra i due cilindri ed il comportamento del sistema Omni-Phase, che ad alti regimi frullava l’olio nel basamento trasformandolo in schiuma, privando così il motore di una lubrificazione corretta. Le conseguenze furono disastrose: surriscaldamenti, cedimenti dei cuscinetti di banco e rotture precoci. Yamaha, che parlò di “problemi di accumulo del calore che impedivano prestazioni stabili e durata del motore”, fu costretta a correre ai ripari introducendo una coppa dell’olio più profonda, un tendicatena esterno, diverse modifiche al circuito di lubrificazione e, soprattutto, un radiatore olio aggiunto in garanzia. Nonostante ben 18 aggiornamenti tecnici, la reputazione era ormai compromessa.
Ciclistica e altre soluzioni tecniche
Il telaio era una doppia culla in acciaio con forcella telescopica da 36 mm e ammortizzatori posteriori regolabili su cinque posizioni. La TX fu anche la prima Yamaha stradale con cerchi in lega di alluminio, copie dei celebri Akront prodotte da DID. Sulle versioni destinate al mercato europeo c’era un doppio disco anteriore da 300 mm, mentre negli altri mercati restava un singolo disco con mozzo predisposto per il secondo. Al posteriore lavorava invece un tamburo da 180 mm. La dotazione comprendeva inoltre un cruscotto con quattro spie di servizio, tra cui l’inedito indicatore dell’usura delle ganasce posteriori e l’allarme pressione olio.
Una moto, due facce
Nei test su strada, la TX 750 mostrava due volti: da un lato la grande fluidità del motore, che a regimi medio-alti sembrava quasi un quattro cilindri ma con un buon tiro ai bassi e, dall’altro, i limiti della ciclistica, con sospensioni troppo morbide e qualche “incertezza” di stabilità alle alte velocità. Nonostante ciò, riviste come Cycle arrivarono a inserirla tra le dieci moto di serie più veloci del mondo nel 1973, grazie alle prestazioni sul quarto di miglio.
Una carriera breve e tormentata
Anche in pista la TX non trovò gloria: tentativi di endurance in Australia, Olanda e persino la collaborazione con Porsche per il Bol d’Or del 1974 finirono in ritiri per guasti meccanici. In Europa, la TX750 di “Texas” Henk Klassen ottenne il sesto posto al 6 Hour di Zandvoort 1973, mentre Yamaha Motor Amsterdam affidò a Porsche AG la preparazione di due TX750 per eventi di endurance 1974, tra cui Bol d’Or 24 a Le Mans. Entrambe fallirono durante la notte per rottura delle catene degli alberi a camme. Le stesse moto corsero anche al Thruxton 500 Miles in Inghilterra e furono successivamente distrutte dopo la carriera agonistica. Nel 1974 Yamaha lanciò la versione TX 750A, ampiamente rivista e priva dei difetti originari. Ma ormai era troppo tardi: le vendite non si ripresero mai.
La produzione cessò nel 1974 nella maggior parte dei mercati e definitivamente in Giappone nel 1975.