Cagiva Alazzurra: la Ducati nata a Varese
L’Alazzurra rappresenta il frutto di un’alleanza strategica fra due nomi storici del motociclismo italiano. Un legame che fa bene a entrambi: Cagiva arricchisce la sua gamma, Ducati si prepara alla rinascita...
Un’accordo che fa bene a entrambe
La collaborazione tra Cagiva e Ducati comincia dal 1 giugno del 1983: da un lato c'è una Ducati in crisi nera, nel momento più difficile della sua storia, dall’altro, un’azienda emergente, in piena ascesa, capace di produrre già più di 40.000 moto all’anno, tutte di piccola cilindrata. Per crescere ancora deve però fare il salto verso le grosse cilindrate. E per farlo… le serve un motore. L’accordo sembra perfetto: Cagiva non ha a disposizione unità 4 tempi pronte, ma ha le idee chiare. La Ducati, per quanto in affanno, ha ancora un nome di grande fascino e soprattutto possiede un gioiello, cioè il bicilindrico Pantah, declinato nelle cilindrate di 350, 500 e 600 cm³. La Ducati, a questo punto, diventa necessaria: le sue competenze tecniche, la sua fama e i suoi motori sono la chiave per proporre nuovi modelli esportabili, laddove la piccola casa varesina fatica ancora a imporsi.
Dal fidanzamento al matrimonio
L’accordo, però, desta più di qualche perplessità. Si annuncia la sospensione della produzione di moto Ducati: la Casa bolognese, per i tre anni successivi, dovrà concentrarsi unicamente sull’assemblaggio di 14.000 motori l’anno, che andranno esclusivamente alla Cagiva. La notizia sconcerta i ducatisti. L’unica consolazione? Il nome Ducati che compare ancora - seppur solo - sui copricarter motore. Ma la situazione evolve rapidamente: nel giro di un anno, il "fidanzamento" si trasforma in matrimonio. I fratelli Castiglioni acquistano l’intera Ducati, ponendo così le basi di quella rinascita che negli anni ’90 porterà al boom di modelli come Monster, 916 e 999.
Arriva l’Alazzurra
Tornando a quel 1983, i primi frutti della nuova alleanza non tardano ad arrivare. Al Salone di Milano di novembre, accanto all’imponente Elefant 750 da enduro, fa la sua comparsa una sport-tourer inedita: la Cagiva Alazzurra, proposta nelle cilindrate di 350 cm³ (per i diciottenni) e 650 cm³. Il nome deriva da un vecchio modello Aermacchi, ma l’ambizione è tutta nuova. A Schiranna si lavora senza sosta per dimostrare che il vento è cambiato. Non si fanno miracoli, certo, ma il risultato è più che incoraggiante.
La base (infelice) da cui nasce
La Alazzurra prende le mosse da un modello Ducati sfortunato sotto ogni punto di vista: la TL 350-600 presentata appena un anno prima. Una Pantah travestita da GT, con un’estetica così infelice da contendersi il podio con la celebre 860 GT. Le vendite, iniziate nell’agosto 1982, sono disastrose. Ne vengono costruiti poco più di mille esemplari, molti dei quali restano invenduti per anni. Ma la meccanica è buona. E così, la TL diventa la base di partenza perfetta per una rivoluzione estetica.
Qualcosa si guadagna, qualcosa di perde
La Alazzurra stravolge il look: si presenta elegante, moderna, e soprattutto torna a mostrare orgogliosamente il suo bel motore Ducati, parzialmente nascosto sulla TL da una discutibile carenatura. Il cupolino è proporzionato e protettivo, la strumentazione è completa (c’è anche l’orologio!) e per design non ha molto da invidiare alle moto giapponesi. È la conferma che il made in Italy può competere. Un modello moderno, affascinante, con una ciclistica valida e un motore invidiato in tutto il mondo. Cagiva dal canto suo interviene dove può. Si migliorano l’assemblaggio e la cura dei dettagli, l’erogazione del motore, più dolce, la rapportatura del cambio, meno distesa e l’escursione delle sospensioni. Tutti miglioramenti apprezzabili, ma condizionati da un budget contenuto. Di conseguenza, qualcosa si perde. Le prestazioni, ad esempio, calano: rispetto ai modelli Ducati, l’Alazzurra perde 4,4 CV nella versione 350 e ben 6,1 CV nella 650, il cui motore viene portato da 583 a 649,5 cm³. Il consumo, per fortuna, resta contenuto.

Motore, cambio e trasmissione
Bicilindrico a 4 tempi longitudinale ad L di 90°raffreddato ad aria. Testa e cilindro sono in lega leggera con canna riportata, la distribuzione è a monoalbero a camme in testa con sistema desmodromico e comando a cinghia dentata e ci sono due valvole per cilindro. La potenza massima è di 36 CV (50,5 CV sulla 650) a 9.600 giri (8.400 giri sulla sorellona), mentre la coppia massima è di 2,9 kgm (5,2 kgm per la 650). La frizione è a dischi multipli in bagno d’olio abbinata ad un cambio a 5 marce. Il tutto si traduce in prestazioni modeste ma sodisfacesti: sulla 350 la velocità massima è di 161 km/h (191 km/h sulla 650).
Telaio, sospensioni e freni
Il telaio doppia culla rialzata in tubi di acciaio è abbinato ad una forcella Marzocchi teleidraulica con steli da 35 mm ed escursione di 149 mm davanti e ad un forcellone oscillante con due ammortizzatori Marzocchi a gas regolabili su 5 posizioni di molla dietro. I cerchi sono in lega leggera Oscam clazati da pneumatici Pirelli da 59 90/90-18 e 110/90-18. I freni invece sono
Brembo: doppio disco fisso da 260 mm con pinze monopistoncino davanti a disco singolo da 260 mm con pinza monopistoncino dietro. Il tutto per un peso sulla bilancia di 190 kg.
La gatta frettolosa…
L’assemblaggio è previsto a Schiranna, ma i motori arrivano completi da Bologna. Cosa che fa ben sperare in un salto di qualità, rispetto allo standard delle Ducati di allora. Le consegne ai concessionari, tuttavia, iniziano solo il 17 settembre 1984, troppo tardi per sfruttare la primavera, stagione ideale per le vendite. La moto, in fondo, nasce in fretta. E si vede.
Lo sterzo resta scarso, la frizione idraulica sulla 650 è dura e poco modulabile, i comandi elettrici sono modesti. Il prezzo di listino, poi, è troppo vicino a quello delle pluricilindriche giapponesi. Eppure, nel 1985 — primo vero anno di commercializzazione — la Alazzurra si fa notare. Gli appassionati italiani apprezzano la novità: una Ducati "in abito buono", elegante, curata, finalmente rifinita.
La migliore? La 350
La versione 350 si rivela la più equilibrata e affidabile. La 650, al contrario, è afflitta da alcuni difetti, quali ad esempio le vibrazioni che spaccano il tubo di supporto del cupolino (modificato sulla seconda serie), vai problemi elettrici comuni a entrambe (l’orologio a lancette che scarica la batteria dopo pochi giorni di sosta), la carburazione difficile da mettere a punto, le centraline elettroniche difettose e vari problemi al tenditore della cinghia, che può bloccarsi causando la rottura della stessa. La strumentazione, inoltre, è bella, ma imprecisa, in particolare il contagiri. I freni sono gli stessi per entrambe: sulla 350 sono adeguati, ma sulla 650 mostrano il fiato corto e, essendo in ghisa, tendono puro ad arrugginirsi. Dinamicamente, le moto perdono parte della grinta tipica del Pantah. La 650, con i suoi 46 CV alla ruota, si allinea alle prestazioni di BMW R65 e Guzzi V65 ed il “carattere Ducati” è ormai un ricordo. Il comfort migliora, anche grazie al sellone ampio, ma le sospensioni sono un compromesso poco soddisfacente. Colpa soprattutto degli ammortizzatori a gas Marzocchi, che passano da troppo rigidi a troppo cedevoli semplicemente variando il precarico. Insomma, che si tratti dell’una o dell’altra, i difetti sono tanti…
Un addio in punta di piedi
Durante la produzione dell’Alazzurra, la Cagiva rivede la sua strategia. Con il proprio marchio si concentra — con enorme successo — sulle Elefant e sulle 125 sportive da off-road. Alla Ducati viene lasciato il compito di rinascere. E, flop come l’Indiana a parte, ci riuscirà alla grande. La Alazzurra esce di scena nel 1986, con un ultimo tentativo turistico: l’allestimento GT (immagine qui sotto), dotato di carenatura integrale e parafango anteriore più avvolgente. Ma è ormai chiaro che il modello ha fatto il suo tempo.

Il grande merito dell’Alazzurra
Nonostante i tanti limiti e gli altrettanti difetti, l’Alazzurra ha avuto un ruolo importante. Ha riportato l’attenzione sul made in Italy in un settore dominato dai giapponesi, ha contribuito al salvataggio della Ducati e ha al contempo mostrato che Cagiva poteva giocare coi grandi. È stata la prima sport-tourer dell’arrembante marchio varesino. E anche se molti esemplari oggi portano di nuovo il nome Ducati - frutto di trasformazioni “special” da parte di appassionati ducatisti - la sua identità resta ben definita.