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Storie del Circus - Anni 70, 80 e 90: quando il motomondiale parlava americano

Gli americani sbarcarono in Europa a metà degli anni 70 e per più di due decadi furono loro a dettare legge nel Motomondiale. Spencer, Lawson, Roberts, Rainey, Schwantz, Kocinski e tanti altri: questa è la loro storia

Nei giorni che precedevano la 200 Miglia di Imola del 1974 ripescarono dal canale Kenny Roberts, Gene Romero e Barry Sheene. Ufficialmente vi erano finiti perché il britannico aveva tirato il freno a mano dell’automobile per fare uno scherzo a Roberts che guidava, ma in città circolava la voce che, ubriaco fradicio, avesse coperto gli occhi a King Kenny facendogli ”Cucù chi sono?”. Leggenda o realtà cambia poco, ciò che conta davvero è che in quei giorni gli americani sbarcarono in Europa.

 

La scuola USA

Chi fosse Barry lo avremmo visto un paio d’anni dopo, quando vinse due titoli mondiali della 500 nel 1976 e nel 1977. Chi fossero gli americani lo avremmo capito nei 16 anni successivi, quando fecero scuola a tutti nella massima categoria del campionato iridato. Non si può parlare di dominio assoluto perché nel 1981 e nel 1982 ad imporsi furono due italiani, Marco Lucchinelli e Franco Uncini, e nel 1987 l’australiano Wayne Gardner, ma per 13 volte il mondiale finì sotto l’ombra della bandiera a stelle e strisce. E furono americani non soltanto il vincitore ma spesso anche diversi dei piloti ai primi posti.

Una stirpe vincente

I motivi di questi successi sono diversi, vediamoli. Negli States c’era una generazione di piloti cresciuti con le ostiche 750 quattro cilindri due tempi da Gran Premio che si usavano nel campionato USA e poi con le Superbike, quando da noi ancora questa categoria non esisteva. Era diverso anche il loro modo di guidare: mentre gli europei facevano correre la moto ”appoggiandosi” alla ruota anteriore, loro la facevano girare lasciando scivolare la ruota posteriore, forti dell’esperienza con il dirt track, dove la derapata è l’unico modo possibile per curvare.

 

King Kenny

 

Il primo a sbarcare nel Vecchio Continente fu Kenny Roberts. In America era il numero 1 e Checco Costa, organizzatore della 200 miglia italiana, nel 1974 lo ingaggiò per ripetere il confronto con il campionissimo Giacomo Agostini, con cui già si era scontrato nella 200 Miglia di Daytona. Roberts prese paga entrambe le volte ma la via dell’Europa era aperta, negli anni successivi fece qualche apparizione a spot con le 750 e nel 1978 il grande passo: la Yamaha USA lo schierò con una moto ufficiale nel mondiale 500, con i suoi colori giallo/nero, e nonostante non conoscesse le piste vinse quattro gare su 11, detronizzando Barry Sheene. Prima di lui si era messo in mostra Steve Baker vincendo da 200 Miglia di Imola 1976 e poi, divenuto pilota ufficiale Yamaha, il mondiale 750 che si disputò per tre anni; ma non aveva lasciato il segno e dopo avere disputato la stagione 1978 con la Suzuki del team Gallina aveva fatto i bagagli.

Roberts era di ben altro spessore, un cowboy divertente ai box e con il pelo sullo stomaco quando era in pista. Nel 1978 aveva dominato, l’anno dopo il suo avversario fu Virginio Ferrari ma nemmeno per lui ci fu nulla da fare, e nel 1980 il californiano completò la tripletta. Avversari in sella a moto ufficiali ce n’erano tanti ma il californiano era su un altro pianeta. Non a caso cominciarono a chiamarlo "il Marziano".

 

Arriva Mamola

 

Nel frattempo il team Adriatica aveva portato in Europa un ragazzino che in America aveva fatto faville e le avrebbe fatte a lungo anche da noi. Randy Mamola era arrivato nel 1980 e nel 1981 era già in sella a una Suzuki ufficiale. Lucchinelli ebbe il suo da fare contro il ragazzino lentigginoso, che comunque terminò il campionato al secondo posto vincendo due gare, mentre Marco con la stessa moto ne conquistò cinque. La Yamaha quell’anno arriva costruito una nuova moto che non dette i risultati sperati ma Roberts riuscì comunque a vincere due gare e finì terzo in campionato. La lista delle moto ufficiali era lunga come un vocabolario: cinque Suzuki, due Yamaha, una Cagiva, una Kawasaki, una Morbidelli, due Sanvenero e le due Honda NR a quattro tempi con i pistoni ovali che arrancavano.

 

Poi anche Spencer

 

Proprio con la deludente NR fece una gara una tantum Freddie Spencer, che negli USA era una star della Superbike; eravamo in Gran Bretagna e il ragazzo dal viso pulito era salito fino alla quinta posizione prima di cadere, quella moto nelle sue mani era tutta un’altra musica. Infatti l’anno dopo, era il 1983, la Casa dell’ala adorata lo volle in Europa per guidare la nuovissima NS 500 3 cilindri due tempi, schierandolo nella stessa squadra di Lucchinelli e Takazumi Katayama. Si guadagnò il soprannome di ”Fast Freddie”. Stupiva tutti per le sue traiettorie diverse dagli altri, Perché frenava fin dentro la curva, e girava stretto per raddrizzare la moto il più presto possibile e  spalancare il gas prima degli altri. Era la nuova evoluzione della scuola americana, mentre Roberts usava traiettorie rotonde per tenere alta la velocità in curva. Fu lotta per tutto il campionato e si risolse all’ultima gara: Kenny doveva vincere e sperare che il suo compagno di squadra Eddie Lawson riuscisse a mettersi tra lui e il fenomeno della Louisiana. Non ci riuscì e Spencer fu campione. Ragazzo particolarissimo il buon Freddie, estremamente gentile, Incredibilmente educato ma altrettanto schivo e difficile da intervistare: chi bussava alla porta della “Morte Nera” – così veniva chiamato il suo tenebroso e lussuosissimo camper – invariabilmente si sentiva rispondere che era sotto la doccia. Finiva le gare fresco come una rosa, senza un capello fuori posto anche quando gli altri sotto il casco erano stravolti. Un vero mistero.

Fu anche l’anno del ritiro di Roberts, che appese la tuta al chiodo per rivestire i panni di team manager: nel 1984 schierò con risultati mediocri una squadra nel mondiale 250, piloti Alan Carter, britannico, e Wayne Rainey, astro nascente negli States.

 

Ago con Lawson

 

Agostini invece gestiva due Yamaha ufficiali in 500, una era quella di Lawson. Personaggio abbastanza chiuso e non troppo comunicativo, a chi gli chiedeva un’intervista rispondeva sempre "later", più tardi. Cioè mai. Però un gran pilota, che seppe approfittare delle disgrazie di Spencer: l’asso della Louisiana cadde nelle prove della prima gara e non prese il via, pochi mesi dopo cadde di nuovo in una gara fuori campionato negli Stati Uniti e dovette saltare le ultime tre prove del Mondiale. Lawson non mancò un arrivo e diventò campione del mondo davanti a Mamola, che aveva lasciato la Suzuki per la Honda. Quarto Spencer con la nuovissima Honda a quattro cilindri, a tratti veloce ma acerba e con diversi problemi.

 

Il capolavoro di Spencer

 

Si rifece l’anno dopo, il campione della Louisiana. Quella del 1985 fu la sua stagione capolavoro, corse sia in 500 che in 250 e vinse entrambi i titoli, unico pilota del motociclismo moderno a riuscire in questa impresa. Lawson non era alla sua altezza e finì secondo.

Le stranezze maggiori di Spencer però dovevano ancora emergere e lo fecero all’inizio del 1986, quando si ritirò mentre era in testa nel primo Gran Premio della stagione. Non riusciva a guidare a causa di una fastidiosa tendinite all’avambraccio, ma ci furono anche altre defaillance inspiegabili e inspiegate. Fatto sta che Spencer prese il via soltanto in due gare  mentre Lawson ne vinse sette su 11 e conquistò il secondo titolo davanti all’australiano Wayne Gardner e alla coppia del team Roberts, che era passato in 500 con due Yamaha ufficiali: terzo Mamola e quarto Mike Baldwin, l’ennesimo americano di buon livello approdato al Vecchio Continente.

 

Spencer si... spense

La stella di Spencer era ormai tramontata, tra problemi e scuse incredibili (lenti a contatto che non stavano al loro posto, una ginocchiera rotta che gli aveva provocato un taglio profondo…) nel 1987 prese il via soltanto quattro volte su 14 gare e a fine anno se ne tornò in America. Quell’anno fu Gardner a portare a casa il risultato per la Honda vincendo ben sette gare su 15 e il titolo iridato, mentre Mamola si confermò pilota di valore ma eterno secondo, precedendo Lawson.

 

Arriva Schwantz

La Suzuki intanto aveva incominciato a fare assaggiare il motomondiale a quello che sarebbe stato uno degli americani più amati: lungo, allampanato e spericolato, Kevin Schwantz era un funambolo capace di conquistare il pubblico con i suoi ”numeri”, pagati con una lunga fila di cadute e di fratture. Non faceva troppi calcoli il texano e proprio per quello nella sua prima stagione completa di Mondiale, il 1989, con la Suzuki ufficiale vinse più gare di tutti, sei, ma per cinque volte mancò l’arrivo e concluse il campionato al quarto posto.

“Steady” Eddie Lawson, quello che sta sempre in piedi, con una mossa a sorpresa era passato dalla Yamaha alla Honda, portò a termine tutte le gare e centrò il quarto titolo iridato. Dietro di lui Rainey, sempre più consistente. John Kocinski, americano dell’Arkansas che aveva corso solo i Gran Premi di Giappone e Stati Uniti classe 250 vincendoli entrambi, fece una gara anche con la 500 in Belgio, concludendo quinto.

 

L’anno dopo Kenny Roberts se lo portò in Europa e per la squadra del californiano fu una stagione trionfale: arrivarono i titoli mondiali sia nella 500 che nella 250. Nella classe regina ad imporsi fu Rainey, pilota coraggioso e ai box un gran signore. Vinse sette gare su 15 e in tutte arrivò sul podio, tranne una. Schwantz, generoso come sempre, dette spettacolo e ne vinse cinque ma non aveva perso il vizio e con quattro “0” si fermò al secondo posto. Intanto nella 250 cominciava a farsi largo Kocinski, campione mondiale. Anche lui pilota dal caratterino spigoloso e pieno di capricci ma una manetta formidabile.

 

USA vs Australia

Gli americani imperversavano e gli australiani pure, per trovare un pilota di nazionalità diversa nella classifica del mondiale 500 del 1991 bisogna risalire al settimo posto. Il confronto fu tra Rainey e Doohan, il californiano non sbagliò una virgola e centrò il secondo titolo davanti all’australiano, poi il solito Schwantz, il compagno di squadra di Wayne, Kocinski, e Gardner. Lawson, passato clamorosamente alla Cagiva, cominciò a svilupparla portandola regolarmente a punti: era anche ottimo collaudatore, oltre che un pilota veloce.

Rainey in azione

 

Il 1992 forse sarebbe potuto essere l’anno di Doohan (qui tutta la sua storia), cinque vittorie e due secondi posti nelle prime sette gare, ma in Olanda si fratturò gravemente una gamba e rimase fuori per quattro Gran Premi. Il titolo andò per la terza volta a Rainey, Mick fu secondo e dietro la solita sfilza di americani: Kocinski, Schwantz e Doug Chandler, messosi in luce l’anno prima con la Yamaha ed ora passato in forza alla Suzuki. In quello stesso anno Lawson dette la prima vittoria alla Cagiva, che la inseguiva dal 1980.

 

La tragedia di Rainey

Nel 1993 il disastro, la caduta a Misano che lasciò Rainey su una sedia a rotelle. Era in lotta per il titolo con Schwantz e fu il texano a conquistarlo. Kocinski aveva iniziato la stagione con la Suzuki 250 e si era fatto licenziare perché, insoddisfatto delle prestazioni della moto, in un impulso di rabbia aveva deliberatamente rotto il motore nel giro di rallentamento; buon per la Cagiva che lo aveva assunto al volo, perché con lui arrivò un’altra vittoria.

Rainey a sinistra e Schwantz a destra

 

Kocinski fa grande Cagiva

 

Il 1993 fu la migliore stagione della Casa italiana perché con l’americano si trovò addirittura terza in campionato, ma fu anche l’ultimo anno di gare della ”Rossa” di Varese. Kocinski passò alla Superbike con la Ducati, nel 1997 vinse il Mondiale con la Honda, quindi con la stessa Casa tornò per un paio d’anni alla 500 GP senza grossi risultati e infine si ritirò.

La Suzuki non era più competitiva come prima e Schwantz si fermò al quarto posto, pur avendo vinto due gare.

L’anno successivo, nel 1994, con le lacrime agli occhi, dopo tre gare annunciò il proprio ritiro: il polso più volte fratturato non gli consentiva di guidare una moto e a quel punto, fuori lui e fuori Kocinski, le presenze americane nel Motomondiale smisero di essere significative.

Nel 1999, a sorpresa, l’ultima fiammata con il titolo di Kenny Roberts Junior: il papà se lo era portato in Europa e lo aveva fatto crescere nel suo team, poi era passato alla Suzuki e quell’anno si dimostrò sorprendentemente efficace. Vinse quattro gare, e il titolo iridato con tre gare d’anticipo.

Valentino Rossi era appena arrivato alla classe regina e tra alti e bassi finì secondo, Max Biaggi a sua volta ebbe alterne vicende e chiuse terzo. Il figlio di Kenny era stato bravissimo a sfruttare la situazione favorevole ma non aveva le stesse doti né lo stesso carisma del papà e negli anni successivi non si ripeté. Era stato Kenny Roberts ad aprire l’epopea dei piloti americani, è stato Kenny Roberts Junior a chiuderla.

La famiglia Roberts ha aperto e chiuso la stagione degli americani nel motomondiale

 

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