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6 maxienduro dimenticate degli anni 2000

Non tutte le crossover hanno successo, ci sono modelli che hanno avuto una storia decisamente poco fortunata. Ecco sei maxienduro che il pubblico ha snobbato

Crossover non vuol dire moto di successo. Si tratta di modelli molto richiesti, ma il segmento è costellato di mezzi con basi tecniche collaudate, prestazioni e soluzioni tecniche talvolta interessanti, che però non hanno riscosso il successo sperato, divenendo in alcuni casi dei veri flop. Ma come mai sono state snobbate? Una risposta esatta non c'è, poiché è difficile stabilire con esattezza i motivi per i quali il pubblico ha preferito determinati modelli rispetto ad altri; tuttavia si possono fare alcuni ragionamenti in merito alle caratteristiche tecniche di ognuna di queste moto, parlando anche dei loro pregi e dei difetti.

Aprilia ETV1000 Caponord

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Tra i modelli italiani che avrebbero potuto riscuotere maggior successo c'è l’Aprilia ETV1000 Caponord, che ha preceduto il modello con motore 1200, rimasto a listino fino al 2016. La prima Caponord aveva un bicilindrico a V di 60° con distribuzione a quattro valvole per cilindro, alimentazione ad iniezione elettronica ed era derivato dal propulsore Rotax che equipaggiava la supersportiva RSV, con opportune modifiche per adattarlo al differente utilizzo. Nello specifico è stato ridotto il diametro dei corpi farfallati e la curva di coppia è stata addolcita, ottenendo una potenza massima di 98 CV a 8.250 giri e una coppia massima di 95 Nm a 6.250 giri. Il telaio è un'unità a doppio trave in alluminio all'avanguardia, sviluppato con una geometria variabile per abbassare il più possibile il baricentro. I freni vedono due dischi di 300 mm all'avantreno ed uno singolo di 270 mm al retrotreno; i cerchi a raggi misurano rispettivamente 19 e 17 pollici, con sospensioni non regolabili. Nella guida risultava una moto agile e molto maneggevole anche in città, ma il motore ai bassi regimi non offriva una spinta davvero corposa e l’assetto, pur volutamente morbido, trasmetteva in frenata una sensazione di eccessiva cedevolezza. A peggiorare la cosa, la mancanza della regolazione del precarico. Infine, il tema dei consumi ha fatto rilevare dati fortemente dipendenti dallo stile di guida: se si sfrutta spesso il motore, cosa che la moto invoglia a fare, il consumo aumenta sensibilmente, riducendo anche l’autonomia.

Benelli Tre-K 1130

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Altra italiana poco fortunata è stata la Benelli Tre-K 1130 (2007-2015). Montava l'allora nuovissimo tre cilindri della Casa pesarese di 1.130 cm³, 125 CV di potenza massima e 115 Nm a soli 6.250 giri, riadattato all'uso turistico con una serie di interventi come la riduzione del rapporto di compressione, la sostituzione degli alberi a camme e la rimappatura della centralina, con l'obiettivo di migliorare l'erogazione e ridurre i consumi. Anche la sesta marcia è stata allungata. Il telaio era un'unità in tubi di acciaio intrecciati con piastre di rinforzo in alluminio, abbinato ad una forcella a steli rovesciati di 50 mm non regolabile e ad un mono Sachs regolabile nel precarico e nel ritorno idraulico. Firmati Brembo i freni, con dischi di 320 mm all'avantreno e pinze radiali a quattro pistoncini. Potente e divertente nel misto, la Tre-K 1130 offriva una buona ergonomia e un comfort discreto, al netto però di una sella un po' troppo dura e di vibrazioni abbastanza intense

Il carattere del motore era piuttosto esuberante, ricchissimo di coppia, non nascondeva la sua estrazione sportiva, risultando però brusco nella risposta quando si riprende il gas in mano, che a centro curva andava a scomporre l'assetto, rendendo la moto non sempre facile da gestire. A livello ciclistico l'impianto frenante era davvero potente e andava dosato, specie all'anteriore, poiché la fase di attacco aggressiva mandava un po' in crisi la forcella, priva di regolazioni.

Buell Ulysses XB12X

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E che dire della Buell Ulysses XB12X, prodotta dal 2005 al 2009 e crudelmente soprannominata “Uselessly”, ovvero inutile, con un gioco di parole. Non ha il fisico della fuoristradista, anche se il motore 1200 Sportster di Harley-Davidson è sempre un bel plus. Ma da quando, nel 2009, Buell ha chiuso, il mercato per la Ulysses si è chiuso a sua volta. Il telaio in acciaio era sostenuto da una forcella con gli steli di 43 mm di diametro e da un monoammortizzatore Showa completamente regolabile. In generale, la Buell Ulysses XB12XT era una buona moto, piacevole da guidare, offriva una buona posizione in sella, ma il parabrezza risultava un po' rumoroso nella percorrenza in autostrada. Per quanto riguarda i freni, il comando anteriore aveva una corsa eccessiva e andava azionato fino in fondo affinché il mordente diventasse sufficiente per frenare efficacemente, mentre il comando posteriore risultava poco modulabile. Infine, il motore 1200 Sportster emanava una gran quantità di calore, specie sul lato destro, e il sistema di raffreddamento faticava a riportare il propulsore in temperatura nelle giornate più calde.

Cagiva Navigator 1000

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Altra italiana ad aver avuto una storia poco fortunata è stata la Cagiva Navigator 1000, prodotta dal 2000 al 2005. Eppure montava il bicilindrico a V della Suzuki TL1000S, un motore potente, e aveva una bella linea. Oggi andrebbe presa in considerazione solo se veramente ben tenuta. A segnare la scarsa fortuna sono stati i ritardi di produzione, il controllo di qualità non sempre all’altezza e l’assistenza post-vendita carente. Una volta in sella alla Navigator, uno degli assi nella manica era la posizione di guida, al netto di una sella piuttosto alta e larga. Le pedane erano ben distanziate e il manubrio infondeva pieno controllo sulla ruota anteriore. Il motore era piuttosto indiavolato: la potenza era tanta e veniva erogata già ai bassi regimi, così come la coppia. Peccato però per l'erogazione un po' sporca, poco fluida, che toglieva parte del feeling, specie quando si andava a riprendere il gas in mano in uscita di curva, e disturbava nella guida in città. Fra le curve risultava piuttosto efficace senza richiedere doti da pilota, ma il monoammortizzatore andava in crisi sulle sconnessioni in rapida sequenza, come se mancasse in parte la frenatura idraulica.

Honda Varadero XL1000V

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Prodotta dal 1999 al 2010, la Honda Varadero XL1000V è stata un'ottima maxi, vantando diverse frecce al proprio arco. Prima fra tutte l'ergonomia: era infatti una delle maxi più comode ed accoglienti, proteggeva divinamente il pilota grazie ad una carenatura molto ampia ma, diciamola tutta, poco piacevole esteticamente. Sulla carta poi il potente bicilindrico a V di 996 cm³ e 95 CV era vincente e nella guida addirittura esuberante, sfoderando ai medi una coppia notevole. Tuttavia i consumi erano direttamente proporzionali alle prestazioni e le dimensioni davvero abbondanti delle sovrastrutture non contribuirono al suo successo. Meglio ha fatto la seconda generazione dal 2003, dotata di alimentazione a iniezione con nuovi corpi farfallati, un rapporto di compressione più elevato, un cambio – finalmente – a 6 rapporti e un frontale migliorato nell'estetica, dalle forme più aggraziate e con plexi regolabile. Poche le modifiche laddove era vincente, quindi nel telaio a doppio trave in alluminio che riceve solo nuovi attacchi del motore, rendendolo elemento stressato, mentre la forcella a steli rovesciati di 43 mm è stata ritarata così come il mono. Confermato poi l'impianto frenante, con due dischi di 296 mm all'avantreno stretti da pinze a tre pistoncini e, al posteriore, un disco singolo di 256 mm anch'esso con pinza a tre pistoncini. Il tutto abbinato al sistema combinato Honda Dual-CBS, la cui taratura è stata rivista rispetto alla precedente versione.

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Migliorato nella risposta ai bassi, il motore della Varadero 2003 perde però parte della grinta agli alti che caratterizzava la versione a carburatori, mentre superati i 5.000 giri le vibrazioni diventano consistenti e fastidiose. Lato consumi, questi sono nettamente migliorati, ma a passo spedito restano comunque elevati per una maxienduro; il comfort in autostrada è poi in parte compromesso dal nuovo plexi, che genera turbolenze nella posizione più alta, e le borse, a velocità elevata, innescano fastidiosi serpeggiamenti. Ok la frenata, ma il sistema combinato in fuoristrada infastidisce parecchio.

Kawasaki KLV1000

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Altro modello dimenticato è la Kawasaki KLV1000 (2004-2006), la versione “in verde” (anche se era arancione) della Suzuki DL1000 V-Strom, prodotta durante una breve collaborazione tra i due colossi giapponesi. Con lei condivide il motore bicilindrico a V di 90° di 996 cm³ e 98 CV, raffreddato a liquido e dotato di iniezione elettronica, abbracciato dal telaio a doppio trave in alluminio. La forcella ha steli rovesciati di 43 mm con regolazione del precarico molla, così come il mono che troviamo al posteriore. Con la Suzuki la KLV1000 condivide anche l'estetica, con cupolino spigoloso e plexi regolabile, strumentazione analogica e freni a disco: una coppia di 310 mm all'avantreno e uno singolo di 260 mm al retrotreno. Anche per lei gran parte dei meriti vanno alla posizione di guida, con una triangolazione confortevole e azzeccata anche per il passeggero. La protezione dall'aria è buona e i consumi sono ragionevoli, così come l'autonomia, grazie al serbatoio di 22 litri. Peccato per gli scarichi laterali, il cui ingombro infastidisce nelle manovre e compromette la possibilità di montare agevolmente le valige laterali. Anche in termini di maneggevolezza non è fra le migliori: la KLV1000 non è fulminea nei cambi di direzione, richiedendo azioni decise da parte del pilota. Il motore offre tanta potenza e una buona grinta, ma è ruvido nella prima parte del contagiri e la vocazione off-road della moto è più estetica che reale, per via di sospensioni che digeriscono poco efficacemente le asperità.

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