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Dakar 2016, intervista esclusiva a Jacopo Cerutti: “Dakar? Dura, infinita, emozionante”

Dakar news – Il miglior italiano in questa Dakar 2016 è stato Jacopo Cerutti, che alla guida della Husqvarna ha concluso il rally in dodicesima posizione. Il comasco ci ha raccontato la sua avventura da debuttante in Sud America, la strategia a cui si è affidato, l'umanità ancora presente in questa gara e ha assicurato: “Nel 2017 la rifarò”
Fantastico esordio
Aveva iniziato la Dakar con l'obiettivo massimo di finirla. Invece per Jacopo Cerutti, 26enne di Como le cose si sono messe molto bene e dopo tredici tappe faticose e imprevedibili, tra Argentina e Bolivia, ha tagliato il traguardo conquistando un incredibile dodicesimo posto. Ecco il suo racconto del rally più difficile del mondo che l'ha incoronato vincitore del trofeo ELF 2016.

Hai metabolizzato quello che hai fatto?
Sì, diciamo abbastanza. Mi sono un po' goduto il frutto del mio lavoro e mi sono reso conto di aver fatto qualcosa di molto bello. Non me l'aspettavo neanche io. Speravo innanzitutto di finirla, un po' come tutti, poi speravo di chiudere nei venti ma quella era già una gran cosa perché c'erano più di 20 piloti ufficiali in lista. Dodicesimo è andato anche al di là delle mie previsioni, sono contentissimo.

Psicologicamente come ti sei preparato alla Dakar?
Non c'è stato un grosso lavoro particolare in quel senso. L'approccio alla gara dev'essere maniacale, bisogna controllare qualsiasi cosa, anche durante la prova speciale, non distrarsi mai. Con il passare dei giorni poi ci fai l'abitudine e diventa anche più facile. La difficoltà sta nei primi giorni, con quelle speciali di quattro o cinque ore, è difficile restare concentrati, ma mentalmente sono riuscito a gestirla piuttosto bene.

Come descriveresti la Dakar?
Dura, infinita e emozionante. A parte la gara in sé, alcune volte ci sono delle speciali che sembrano non finire più e bisogna pensare come se il tempo fosse relativo, se inizi a guardare chilometro dopo chilometro, non passano più sei ore. Bisogna prenderla con filosofia, non pensare a quanto sia lunga, pensare solo ad andare e prima o poi finirà.

Qual è stata per te la difficoltà più grande?
A livello tecnico, in moto, non ho avuto grosse difficoltà. Il più è stato imparare ad organizzarmi bene tutti i giorni con tutto il necessario, regolarmi bene su cosa mangiare, quanto e a che ora, la stessa cosa sul dormire facendo attenzione a non sgarrare. Gestire insomma tutta l'organizzazione che su una gara di tre o quattro giorni non influisce, su quindici giorni influisce tanto. Era la mia prima esperienza e l'organizzazione dei tempi era a me sconosciuta. Mi hanno aiutato i consigli degli altri piloti e anche il team che mi ha dato un elenco di cose molto dettagliato.

È stato più lo sforzo fisico o mentale?
Si tratta più di una cosa mentale. Non c'è quello sforzo fisico che ti lascia senza fiato. È costante. Ci sono state alcune tappe, tipo nella sabbia, dove era davvero dura. È talmente distribuito nel corso della giornata, è talmente impegnativo come ore, che diventa più uno sforzo mentale resistere, il fisico va di conseguenza.

Il ricordo più bello della Dakar?
Sicuramente l'arrivo dell'ultima speciale, con tutti i piloti insieme, sapere che ce l'avevamo fatta a finirla. Strette di mano, tanto pubblico, e poi il trasferimento finale in cui ognuno può pensare a quello che è riuscito a fare. È stato molto emozionante.

Quanto conta l'aspetto umano nella Dakar?
Tra piloti conta tantissimo. Secondo me non sarebbe proprio la stessa Dakar senza la parte umana che ogni pilota tira fuori. Ci siamo dati una mano tutti, nelle tappe marathon si vive tutti insieme, non c'è mai nessuno che litiga. Questa è una delle cose che forse è restata solo nella Dakar, in modo così sentito, lo spirito è rimasto immutato. La competizione c'è, ma ognuno pensa a fare la sua gara al meglio, gli altri vengono di conseguenza. Si pensa a se stessi cercando di dare il meglio, poi alla fine si guarda la classifica.

Era la tua prima esperienza, quale strategia hai usato?
Semplicemente pensare di arrivare in fondo. Quando vedevo che riuscivo ad andare bene, mi trovavo bene con la moto, spingevo di più, magari in altre occasioni ho visto che non ero al 100% della forma, o c'erano terreni un po' pericolosi, tiravo un po' i remi in barca. Ho attaccato di più sui terreni più congeniali o dove c'era la navigazione che mi piaceva di più.

Che effetto fa essere il miglior italiano della Dakar 2016?
Ha fatto tanto, sicuramente più quello che il piazzamento in assoluto. Ci sono tantissime persone che seguono la Dakar ed essere il primo pilota italiano è stato stupendo. Mi è dispiaciuto tanto per Alessandro Botturi, poteva avere ambizioni di classifica, stare tranquillamente nei dieci a fine gara  invece ha avuto problemi. Ci siamo visti poi subito la sera dopo, sa meglio di me che la Dakar è così, è stato un peccato. Paolo Ceci era un portaacqua, “purtroppo” ha dovuto fare il suo lavoro, stava andando molto forte.

Rifarai la Dakar?
Sì, sì. Sicuramente. Mentre la stavo facendo, qualche volta ho pensato che l'anno prossimo me ne sarei stato a casa, perché era dura e sei sempre esposto a rischi. In realtà, appena finita stavo pensando all'anno dopo.

C'era anche tuo papà Gianni, che ruolo ha avuto nella tua Dakar?
Lui era venuto teoricamente perché è appassionato di foto. In realtà era lì anche in caso di bisogno, e infatti il giorno dopo quello di riposo ho avuto una brutta caduta, e lì devo dire che mi ha aiutato tanto, mi ha un po' salvato la gara. In quel momento ho proprio avuto bisogno di un aiuto da parte sua e fortunatamente c'era. Avere comunque una persona, un familiare, qualcuno che ti segue, fa tanto. Già ci sono tante cose che ti rendono poco tranquillo, avere una persona vicina che sai che è lì con te ti aiuta.
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